PAVIA – Una delle proteste più violente scoppiate durante la primavera del 2020, in piena emergenza sanitaria da Covid-19, ha avuto luogo nel carcere di Pavia, dove una rivolta ha scosso l’istituto penitenziario l’8 marzo dello stesso anno. A scatenare i disordini, un gruppo di circa un centinaio di detenuti che, armati di fornelletti a gas, hanno appiccato le fiamme alle lenzuola. Il risultato fu un inferno di fumo che invase il carcere, mettendo in serio pericolo la salute dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria.
Le fiamme, che provocarono il rischio di intossicazione per diversi prigionieri, non risparmiarono nemmeno il personale di sicurezza: due agenti, colpiti dalla fitta coltre di fumo, furono salvati grazie all’intervento tempestivo dei colleghi che li rianimarono e li portano in salvo. Alcuni detenuti, intanto, si rifugiarono sui tetti, mostrando striscioni e creando una scena caotica di fumo denso che si sollevava dalle strutture del penitenziario.
A distanza di anni, il processo legato a questi gravi disordini è iniziato, con diverse decine di persone accusate di “devastazione”, “lesioni aggravate” e “danneggiamenti”. I danni arrecati al carcere sono stati stimati in circa 600 mila euro. Tra gli imputati, figura anche un cittadino straniero residente in provincia di Varese, che, all’epoca dei fatti, si trovava in carcere per reati contro il patrimonio. Nonostante fosse ritenuto uno dei principali responsabili della rivolta, il suo ruolo all’interno della protesta sembra essere ambivalente.
Secondo la difesa, rappresentata dall’avvocato Gianluca Franchi, l’imputato avrebbe anche ricoperto il ruolo di mediatore durante la rivolta, contribuendo a placare le violenze. Sarebbe stato lui, infatti, a svolgere la funzione di “anello di collegamento” tra i detenuti e le autorità, come il prefetto e il procuratore della Repubblica, che cercavano di negoziare la fine dei disordini. La sua capacità di influenzare i compagni di carcere e di dialogare con le istituzioni ha, quindi, portato a una visione più complessa del suo coinvolgimento.
Il caso sta attirando l’attenzione per le sue sfaccettature, poiché il processo non si limita a giudicare chi ha partecipato alla violenza, ma anche chi, pur essendo coinvolto, ha cercato di fermarla, mettendo in discussione le responsabilità individuali in una situazione di emergenza e caos. La sentenza finale, dunque, si prospetta come un importante capitolo nella comprensione delle dinamiche interne alle strutture carcerarie e delle azioni che possono essere intraprese in momenti di estrema tensione.