Parlavo l’altro giorno con Alessandro Salvatico, chef dell’Armani Ristorante di Dubai. Mi raccontava dell’incredibile frenesia che negli Emirati Arabi Uniti si è sviluppata in questi mesi per l’Expo… Sì, ma per il loro Expo, quello programmato nel 2020. Ecco, nel giorno in cui i riflettori si sono spenti sull’Esposizione milanese, rimane solo questo rammarico: ci abbiamo creduto tutti (meglio: quasi tutti) un po’ tardi. Eravamo troppo condizionati dai cattivi pensieri, dai pessimi esempi del passato. Un anno fa molti auspicavano ancora che Milano rinunciasse all’evento
per la quale si era candidata, scegliendo un tema straordinario e perfetto per l’Italia. Sarebbe stata la clamorosa dimostrazione planetaria di una nostra irreversibile decadenza. Ora rimiriamo una città trasformata, dinamica, della quale i cittadini sono tornati a essere orgogliosi; è rinato un senso di appartenenza che pareva essersi perso nelle nebbie da decenni. “Nove turisti su dieci entusiasti della città”, ci dicono i sondaggi. Gli unici pessimisti siamo stati, a lungo, noi. Pescando alla rinfusa nei ricordi: Expo doveva essere un colossale spreco di denaro pubblico; una colata di cemento sulla ridente (?!) periferia; un luogo di infinite corruttele; un obiettivo perfetto per attacchi terroristici di ogni tipo; un disastro organizzativo; un luna park senza contenuti; un flop annunciato; un’occasione di propaganda per le bieche multinazionali del cibo; una buona scusa per finanziare opere inutili e/o dannose (peraltro gran parte delle quali già programmate indipendentemente da Expo). All’inizio si ghignava perché – a detta dei detrattori – non ci sarebbe andato nessuno. Per almeno due mesi si sono letti improbabili scoop sul decumano deserto, quando bastava passeggiarvi per notare come non lo fosse affatto; da agosto in poi ci si è invece lamentati perché Expo attirava fin troppa gente. «Oddio c’è la coda», è stato il leitmotiv definitivo: come se, ritrovandosi tutti quanti bloccati in autostrada nei giorni di Ferragosto, la colpa fosse dell’estate. Qualcuno si lamentava del costo del biglietto, auspicando che la mano pubblica intervenisse per calmierarlo; erano gli stessi che, a latere, si sarebbero indignati se altri soldi dello Stato fossero stati stanziati per l’occasione. E i prezzi per mangiare? Sembrava che non si riuscisse a mettere qualcosa sotto i denti, senza svuotare il portafoglio. Tutte scempiaggini. Ora ci si ritrova, dopo la cerimonia di chiusura, stanchi ma un po’ malinconici. Sappiamo già che Expo ci mancherà: «Ti ricordi quanto era bella Milano, durante Expo?» ci racconteremo l’un l’altro, tra qualche tempo (il passato appare sempre più bello del presente, quando si superano i trenta anni d’età). E, invece che godersi finalmente un successo che ha dato lustro al Paese, ci si accapiglia per il futuro: che succederà ai padiglioni? Che ne sarà di Palazzo Italia? E l’Albero della Vita? Temi importanti, intendiamoci: la dotazione infrastrutturale dell’area va sfruttata al meglio ed essere vigili è più che un diritto, persino un dovere, specie per chi fa informazione. Però, suvvia, un poco di ottimismo possiamo anche permettercelo: il futuro è già qui. Sta nella straordinaria eredità che l’Esposizione ci sta per lasciare. 1) Una città rinata, che ha affermato la propria immagine positiva in tutto il mondo, migliorando anche quella dell’Italia. I lombardi hanno riscoperto la loro vocazione a essere buoni organizzatori, sufficientemente seri e pragmatici. È un riscatto incredibile, perché troppi scandali ci avevano convinto, negli anni, che l’immobilismo fosse più etico del darsi da fare. Le onde ci facevano così paura da preferire loro la palude; 2) gli italiani hanno imparato a stare in coda. I londinesi d’ora in poi ci fanno un baffo; 3) chi ha voluto, in questi sei mesi ha avuto occasioni straordinarie per acquisire nuova conoscenza del mondo, dei popoli, delle tematiche relative all’ecosostenibilità alimentare. È il tema del futuro; 4) Expo è anche la marea di contatti che hanno generato e genereranno contratti, scusate il bisticcio. È la rete di relazioni che i vari attori hanno saputo sviluppare e che, auspicabilmente, genereranno nuove prospettive, ulteriori sviluppi; 5) il filosofo Salvatore Veca, curatore scientifico del progetto Laboratorio Expo e coordinatore del gruppo di lavoro che ha portato alla nascita della Carta di Milano, spiegava a chi scrive, proprio qualche giorno fa, come la città si candiderà a diventare la sede di un centro per il diritto del cibo, «una brillante idea di Livia Pomodoro. La Tour Eiffel di Expo 2015 sarà un grande hub di conoscenze che ridefiniscano il tema centrale “feeding the planet”. Vogliamo che da qui parta un’iniziativa per affermare giuridicamente il diritto al cibo e quello a produrlo, ossia la sovranità alimentare. È una sfida importantissima: creare un paniere di beni comuni globali. Commestibili». Insomma: il luna park ha portato non solo divertimento (che è peraltro legittimo), ma anche economia, cultura, conoscenza, impegno sociale. Vi pare poco?