Crediamo che non afferrino tutto, perché le parole e i problemi dei grandi sono roba da grandi, ma parlare coi bambini di Parigi e terrorismo è come scrostare strati di sporco e tornare a vedere il fondo.Ci siamo interrogati, la sera prima, su che cosa dire e su come farlo. Su che cosa omettere, su che cosa meritava di essere dettagliato: insomma, come si fa sempre prima di una lezione davvero importante. Poi il giorno dopo te li trovi davanti, e capisci che ogni pre-confezione è un bluff. I bambini i bluff li fiutano lontano un miglio.In fin dei conti, dal loro punto di vista, il terrorismo è solo questione di non voler bene ad altre persone. Cioè: ci sono cattivi che vanno in giro a sparare, a far esplodere bombe, a uccidere gli altri. Il perché lo chiedono, ma stringi stringi, non ci sono spiegazioni che non possano ridursi – in ultimissima istanza – ad un buoni contro cattivi. Chiedono quello: una parte con cui stare (e non solo per ciò che riguarda Parigi). Così, al netto di tutte le analisi e le possibili dietrologie, ci si accorge che quel che successo in Francia è crudamente quel che dicono i bambini. Da un lato è agghiacciante, perché l’ideologia spesso fornisce una coperta con cui nascondersi e riscaldarsi: la riduzione operata dai bambini se ne sbatte della globalizzazione, della questione araba, dell’Islam moderato, dell’occidente che arma i propri carnefici. I bambini fanno capire che quelli che lanciano le bombe sbagliano. Punto. Non importa chi dicano di difendere.Dall’altro, però, c’è qualcosa di rassicurante, nel senso di ciò che noi come adulti e come scuola possiamo fare. Ci spieghiamo. Man mano che ci si addentra nei quesiti (brutali) posti dai bambini, si percepisce quanto sia determinante – in ciò che genera una mentalità terroristica –
il non-incontro dell’altro. I bambini pongono una domanda molto semplice: perché si arriva ad ammazzare? Nel momento in cui si prova a raccontare loro che, prima dell’uccisione fisica, c’è un’eliminazione dal proprio campo visivo, dai propri sentimenti, perfino dalla propria quotidianità, si scopre che è proprio nella vita di tutti i giorni che si costruisce l’incontro con gli altri. E a scuola si viene tutti i giorni.C’è qualcosa di grande che noi insegnanti possiamo fare (e già proviamo a fare): abituare ad accorgersi di chi ci sta intorno, inculcando quelle cose banalissime quali il saluto ai compagni, o alla bidella quando entra a prendere le presenze della mensa, il chiedere come stai, il fare silenzio se un compagno ha il mal di testa. Significa orientarsi in mezzo agli altri, che è un ottimo inizio per evitare di avere paura. È un modo molto abitudinario (e quindi molto radicato) di generare curiosità per chi vive di fianco a noi, per abbozzare quel prendersi cura che è l’antidoto numero uno alla violenza fisica e verbale. Se il mio amico mi incuriosisce, non lo ferirò; anzi: imparerò a occuparmi di lui. Un atteggiamento che alla lunga responsabilizza, che rifugge dal “ma anche lui…” o dal “se lo fanno tutti…”. Sembrano davvero cose ordinarie, ma sono più utili di mille giornate a tema. Del resto, Hannah Arendt – di fronte ai capi nazisti – fu impressionata dalla loro banalità di uomini come tutti noi. Se il male è in fondo banale, combattiamolo con un bene altrettanto banale, fatto di vecchiette che riescono a sedersi sul tram e di correttezza in coda alla cassa. Magari va a finire che i nostri figli crescono in un mondo in cui – piuttosto che dubitare di chi ci sta a fianco – ci si può perfino fidare degli altri.