I problemi e i grandi temi trattati da parte della politica varesina sarebbero le pagine di alcuni libri scolastici “gender” con protagonisti un anatroccolo (ritratto con degli equivocabilissimi occhiali a forma di cuore) e una bambina bruttina che non si sente accettata: entrambi farebbero riferimento alla possibilità di sentirsi uomo o donna al di là del proprio corpo. Altro scandalo politico, ultimo in ordine di tempo, è l’innocuo e “democratico” assenso con cui il sindaco Attilio Fontana concede la sala matrimoni a un convegno sulle coppie di fatto (chi ha paura delle parole e delle idee,
non accettando di contrastarle con altrettante parole e idee, ma attraverso divieti o negazioni, ha perso la battaglia ancora prima di cominciarla). E pensare che una volta il “problema” era Tangentopoli… Per non parlare di piazza Repubblica, un puntino sulla mappa della provincia che sembra decidere i destini del mondo e delle elezioni, o degli intollerabili e “apocalittici” tempi di permanenza in auto di genitori imbolsiti che accompagnano i propri figli fin sotto l’uscio delle elementari o delle medie. E pensare che i bambini di una volta a scuola ci andavano e ci tornavano da soli, in pullman o in slitta scendendo dal Montello quando nevicava; a Guiglia, piccolo comune dell’Appennino modenese, per recarsi a studiare a valle attraversavano il fiume Panaro con una carrucola. Ogni giorno, senza genitori al seguito.
Dov’è il coraggio? Dove sono gli uomini e le donne capaci di fare fatica, soffrire e lottare per cose un po’ più vere e serie? E di fermarsi davanti a difficoltà e problemi concreti, grandi e importanti anche per gli altri, non solo per se stessi? Mentre a Varese s’incazzano e s’accapigliano sulla teoria gender , sul Masterplan, sulla buona o sulla cattiva scuola di Renzi, aspettiamo ancora che qualcuno esca dal fumo della sua impalpabile battaglia politica per dire una parola, una sola, a quei disabili che a scuola, non avendo il Suv di papi e mami, non possono neppure arrivarci perché i trasporti eccezionali pochi comuni o nessuno può più permetterseli, e se per caso hanno la fortuna di entrare di straforo in aula, insegnanti di sostegno neppure a parlarne: sedetevi in fondo alla classe sulla vostra stramaledetta carrozzina, e se le ruote non riescono a incastrarsi sotto i banchi, portatevi un seghetto da casa e arrangiatevi. Eppure di storie come queste continuiamo a raccontarne: invano.
Abbiamo la fortuna di avere le forze, anche economiche, per unirci ma restiamo divisi anche sulle cose che contano, affondando in un bicchier d’acqua, facendo affondare con noi anche chi dovremmo e potremmo aiutare. Non guardiamo oltre la portiera del Suv e ci lamentiamo di quello che abbiamo, anche quando è tanto (troppo?), gridando alla città che fa schifo e perdendo la coscienza della realtà. Un bambino di Napoli, anche solo per studiare, dovrebbe emigrare perché l’89 per cento delle primarie non offre il tempo pieno (dopo le lezioni, dove vanno?), l’84 per cento non può accedere ad attività sportive e culturali (non ci sono palestre né biblioteche), il 75 per cento non ha mai visto un museo e il 66 non sa cosa sia un libro. Se poi sono portatori di handicap, possono pure restare a casa. Prigionieri. Tutto ciò lo ha scritto un bravissimo e coraggioso cronista napoletano, Vincenzo Esposito, in una lettera a suo figlio: «Ti guardo e penso che sarai tu alla fine a pagare i miei errori e quelli di migliaia di altri genitori che in questi anni sono rimasti zitti. Emigrerai. Andrai via per studiare. Tu, almeno, lo puoi fare». E gli altri? Sono ancora più disperati il padre o la madre che guardano con terrore alle tante alternative di una scuola che non c’è. La malavita, la camorra, il carcere, la morte. «È facile caderci dentro quando nel quartiere dove abiti non c’è la possibilità di studiare. Una vedetta nelle piazze di spaccio guadagna anche 150 euro al giorno. È il primo gradino della carriera camorristica. Basta salirlo, e tornare indietro è praticamente impossibile. Che società è mai questa? Che amministratori abbiamo noi che lo permettiamo? In verità siamo all’ultimo banco. Perchè se lo studio è un diritto, a Napoli e in Campania questo diritto non c’è. Siamo stanchi di vedere i nostri figli emigrare, andare lontano. Quando ci va bene. E non vogliamo vederli morire per strada, qualche ora prima dell’alba per un proiettile vagante o ben indirizzato da un killer, anche lui ragazzino. Perché è giusto che tutti abbiano almeno una possibilità, come accade ovunque. Altrove». Anche qui. Dove ci crediamo i primi della classe. Ma in realtà non lo siamo e non meriteremo d’esserlo finché non sapremo fare una scala dei veri problemi e una squadra unita per risolverli. Per ora ci dividiamo persino davanti a una piazza o a un libro con protagonista un anatroccolo, fingendo di non vedere quella carrozzina sola all’ultimo banco.