La Liuc, un ateneo che «produce buoni risultati» e che ha una «sana ambizione» di continuare a migliorarsi e a crescere «qualitativamente più che quantitativamente». I punti di forza e le sfide lanciate dal rettore Federico Visconti, da due anni alla guida dell’università Cattaneo di Castellanza. Piedi per terra ma idee chiare per un rettore “pop” che, dopo aver costruito il suo discorso al Giorno dei Laureati a partire dalla canzone trionfatrice di Sanremo di Francesco Gabbani, ieri al Matricola Day ha citato Micheal Jordan: «Con il talento si vincono le partite, ma è con il lavoro di squadra e l’intelligenza che si vincono i campionati».
Seconda dietro alla Bocconi nel rapporto iscritti/laureati, seconda nella valutazione del Censis tra le piccole università non statali: graduatorie che si aggiungono alle positive statistiche di Almalaurea sull’occupazione dei laureati.
Sono buoni risultati sia rispetto al portare avanti bene i ragazzi nel “durante” sia rispetto al collocarli con successo sul mercato del lavoro. Poi c’è anche qualche indicatore un po’ più fragile, ad esempio sulla ricerca il cammino della Liuc è in leggera salita, per motivi anche comprensibili. Ma quei due elementi che ho citato esprimono il valore di un certo modello formativo. Liuc offre un prodotto didattico, dei servizi agli studenti, delle possibilità per le imprese che alla fine producono risultati.
Bisognerebbe entrare nel dettaglio, ma ci sono una serie di elementi di valore da prendere in considerazione. Probabilmente un buon mix tra accademici e docenti a contratto è uno, come lo sono un modello alla internazionalizzazione, il fatto di essere piccoli e di poter seguire più da vicino gli studenti in difficoltà, la prossimità con i recruiters, antenne sul mondo dell’impresa. Ma anche il fatto di avere ancora alcuni esami orali, importante anche perché i recruiters ci chiedono skills, e la salivazione azzerata di fronte al professore è pur sempre una lezione di vita. Va da sé che questi risultati bisogna poi “tenerli su”. E noi lo stiamo facendo, ad esempio ampliando le relazioni internazionali, inserendo un nuovo percorso di Entrpreneurship&Innovation, avendo riposizionato i due corsi laurea di ingegneria, avviando un percorso di business school.
Più che dal punto di vista quantitativo, perché la ricerca di volumi non è alla nostra portata, c’è un tema qualitativo importante. Abbiamo davanti alcune sfide. La prima è quella di innalzare il livello della ricerca scientifica, dato che credo sia miope pensare che ci siano università che possano non occuparsene. La ricerca è fondamentale per l’immagine dell’istituzione e per la crescita delle nuove leve, e dobbiamo gestire un buon equilibrio tra la ricerca applicata e la ricerca accademica.
La seconda sfida, non banale, è tenere sempre freschi i contenuti didattici. Fondamentale per questo è avere un’antenna sulle aziende: in questo siamo facilitati perché ascoltiamo, vediamo, incontriamo, abbiamo il manager in pensione che insegna qui e porta freschezza di contenuti. La terza sfida è sul modello didattico: quello che i recruiters ci segnalano è che non c’è solo un tema di contenuti, che si possono colmare, ma anche di modelli comportamentali – curiosità, collegamenti, profondità di pensiero, capacità di scrivere, di lavorare in gruppo, senso della fatica – oggi un po’ persi nelle corde educative. Ecco perché su questo stiamo facendo un po’ di ricerca, aprendo una nuova stagione di skills&behavior.
Al Tedx di Varese avevo citato Asimov, “chissà come si divertivano”: io ho il cruccio che in futuro ci sia una didattica fredda, troppo centrata sui computer e sulle slide. Mi piacerebbe un recupero di certi metodi didattici, di valorizzazione dell’interazione in aula, di ritorno a discussioni di tesi ed esami di una volta. Poi c’è la quarta sfida, notevole, dell’internazionalizzazione, perché oggi la mobilità è la regola del gioco. Ma lungo tutte queste dimensioni, c’è anche un’altra sfida.
Una sfida di relazioni: sul territorio, sì, ma anche con altre università italiane e straniere, anche dal punto di vista accademico, un network al di là degli exchange. Non che non ci siano già, ma vanno potenziate. E rafforzare la cinghia di trasmissione con le aziende.
Qui all’inizio degli anni ‘90 sono stati bravi ad avere una visione di università, ma probabilmente oggi ce n’è un’altra. La tensione alla visione è una roba fondamentale. Per una vocazione nazionale non siamo ancora abbastanza conosciuti, forse dobbiamo valorizzare di più i diecimila laureati che abbiamo in giro. Ma abbiamo già buon mix tra studenti del territorio e nazionali, su cui mantenere un equilibrio. Riprendo due concetti che ho già espresso: quello di sana ambizione, nel mio primo discorso da rettore, e quello di assunzione di responsabilità, lo scorso novembre.
Adempimenti e vincoli, che ci affaticano molto, li abbiamo come gli altri. Con l’aggravante che invece di toglierceli ce li aggiungono, per legittimare, in maniera un po’ keynesiana, una burocrazia che non ha nulla a che vedere con il bisogno formativo delle famiglie che iscrivono i loro ragazzi a questa università. Si ingessa, si perde tempo, si fanno lavorare strutture. Una sorta di mostro weberiano che ingessa, fa perdere tempo, fa lavorare le strutture amministrative, che però non è solo per le università. C’è una cultura del controllo burocratico fine a se stesso che è il nemico numero uno della cultura imprenditoriale e che uccide il senso dell’intrapresa e frena questo Paese.