New York, 25 ago. (TMNews) – Dieci anni fa un’azione di Apple Computer valeva 9 dollari. Oggi, al Nasdaq il titolo passa di mano intorno ai 370. Due numeri che raccontano bene la storia di Apple sotto Steve Jobs, dimessosi ieri a sorpresa per motivi ufficialmente non precisati ma senza dubbio legati alla salute precaria. Da quando Jobs è tornato nel 1997 alla guida della società, il titolo Apple ha guadagnato il 9.000 per cento: chi avesse scommesso mille dollari sull’allora 42enne amministratore delegato, oggi avrebbe in tasca nove milioni. (Quanto a Jobs stesso, Forbes calcola la sua ricchezza a poco più di 8 miliardi di dollari, numero 110 nella classifica dei più ricchi del pianeta).
Cifre che fanno discutere Wall Street, dove oggi si parla di una sola cosa: il destino di Apple senza l’uomo che di sé ama dire “io non sono un manager, sono un leader”. Riuscirà Apple a tenere il passo fuori misura degli ultimi quattro anni, quando il successo senza freni di iPhone e iPad l’hanno portata al numero due del mondo tra le aziende più capitalizzate dietro solo al gigante del petrolio Exxon Mobil? L’opinione prevalente è che sì, l’azienda di Cupertino magari non sarà più la stessa, ma ha i numeri per restare in cima. Lo dice di nuovo il titolo, che perde l’1 per cento nella mattinata di scambi, certo non il crollo che il panico per l’uscita di Jobs avrebbe potuto causare.
L’opinione per cui la Mela resterà potente la riassume David Pogue, esperto di tecnologia del New York Times: “Uno, Jobs rimane presidente, il padrino è lui e continuerà a tirare le fila. Due, le aziende tecnologiche non si muovono troppo velocemente, Apple ha almeno un paio d’anni di prodotti decisi da Jobs pronti a uscire. Le invenzioni cool e vendutissime continueranno. Tre, anche se Jobs non va a tutte le riunioni, le sue filosofie sono ormai parte profonda dell’azienda”.
Ma è anche vero che lo stile di guida di Jobs, uomo dal carattere difficile ma dalla visione lunghissima, è impossibile da replicare e ha dato a tutta Apple un tono che forse non sopravviverà facilmente all’assenza del suo creatore, le cui condizioni di salute rimangono un enigma. Il design dei prodotti-culto con la Mela dipende dal capo dei progettisti Jonathan Ive, ma nella sede di Cupertino lo sanno tutti che a decidere in ultima istanza è solo un uomo, Steve. A metà del decennio scorso bocciò due prototipi dell’iPhone prima di decidere che il terzo gli andava bene. E al giornalista che gli chiedeva quali ricerche di mercato fossero state usate prima di lanciare l’iPad nel 2010, Jobs aveva risposto: “Nessuna! Non sono i consumatori a dover sapere cosa vogliono”. Sottinteso, naturalmente, che lo sapeva lui.
Un piglio che non è caratteristica del nuovo amministratore delegato Tim Cook, 50 anni, noto per la grande capacità di gestire le operazioni ma non per la visione futuristica. Del resto non bisogna aspettare molto per sapere come andranno i primi prodotti Apple dell’era post-Jobs: quest’autunno arriverà l’iPhone 5, il prossimo anno (già forse nel primo trimestre) l’iPad 3. Che venderanno bene, probabilmente benissimo, è facile prevederlo: ma come dicono gli analisti, ci vorranno un paio d’anni per vedere davvero i primi segni dell’era post-Jobs. Almeno a sentire l’ascoltato David Pogue, non sarà come quella appena conclusa: “Difficile pensare che vedremo altri 15 anni di prodotti che cambiano la cultura”. E all’orizzonte, il concorrente che fa paura c’è già: è Google.
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