In una scuola scozzese, un bambino ha recentemente iniziato a identificarsi come un lupo, e la scuola ha scelto di supportare questa convinzione, seguendo le linee guida educative nazionali. La vicenda ha sollevato un acceso dibattito, in quanto molti si chiedono fino a che punto debba arrivare l’inclusione nelle istituzioni scolastiche, soprattutto quando si entra in territori insoliti come la cosiddetta “disforia di specie”.
La scuola ha applicato le linee guida del programma scozzese GIRFEC (Getting it Right for Every Child), mirato a supportare gli alunni superando disuguaglianze e ostacoli all’apprendimento, anche con approcci personalizzati. Tuttavia, il caso del bambino che si identifica come lupo ha sollevato preoccupazioni su come il sostegno alle percezioni individuali debba essere bilanciato con il buon senso e i fondamenti scientifici.
Secondo il neuropsicologo clinico Tommy MacKay, intervistato dal Daily Mail, la “disforia di specie” non ha alcun fondamento scientifico e si inserisce in un contesto culturale in cui molte persone cercano di identificarsi in qualcosa di diverso dalla loro realtà biologica. Per lo specialista, è preoccupante che una scuola possa sostenere un simile comportamento, anziché aiutare il bambino a sviluppare un senso di sé più realistico e sano.
Il neuropsicologo critica apertamente l’approccio della scuola, che secondo lui rischia di condurre il bambino ancora più lontano dalla consapevolezza di sé, alimentando fantasie che potrebbero non essere benefiche per il suo sviluppo psicologico. La questione diventa particolarmente complessa quando ci si chiede come la scuola gestisca concretamente il “lupo” in classe: verrà trattato come un qualsiasi altro alunno o saranno previste eccezioni particolari al suo comportamento?
La vicenda ha messo in evidenza un problema più ampio che riguarda l’identità e l’auto-percezione in età giovanile, sollevando domande su quali siano i limiti del sostegno a identità non convenzionali, soprattutto in un’epoca in cui fenomeni come il “gender fluid” e altre forme di autoidentificazione stanno diventando sempre più comuni. Non si tratta solo di questioni di genere, ma di un campo che include chi si identifica in età diverse dalla propria, come il caso di un uomo canadese che vive come una bambina di sette anni, o chi si percepisce come un animale, come gli “uomini-cane”, che adottano comportamenti canini nella vita quotidiana.
La vicenda scozzese è solo l’ultimo esempio di un fenomeno che sta prendendo piede anche in altre parti del mondo. Negli Stati Uniti, ad esempio, è emerso il termine ”furry” per descrivere i bambini che si identificano come creature pelose, con preferenze che vanno dai gatti ai dinosauri. La tendenza ha spinto molti osservatori a interrogarsi sui limiti della libertà di autoidentificazione, soprattutto quando si ha a che fare con bambini in fase di crescita.
Nonostante queste derive, ci sono ancora voci critiche che si oppongono a simili eccessi. In un recente video virale su TikTok, una madre statunitense ha raccontato di come il veterinario abbia rifiutato di visitare il suo figlio, che si identificava come un gatto, ricordandole con fermezza che l’anatomia umana non può essere trattata come quella di un animale. Questo episodio ha riacceso il dibattito sull’equilibrio tra accettazione delle differenze e rispetto della realtà biologica.
L’episodio scozzese è solo uno dei tanti che dimostrano quanto sia urgente riflettere sui limiti della pedagogia inclusiva. Mentre è fondamentale garantire un ambiente sicuro e di supporto per tutti i bambini, resta aperta la domanda su come affrontare casi in cui l’identificazione personale sfida i confini della realtà.