Capita anche ai fedeli scostanti di rileggere il vangelo, di tanto in tanto. Un passo di quello cestistico è stato riproposto ieri su Facebook ed è diventato virale, nonostante sia stato vergato praticamente un anno fa e nonostante il suo autore non abbia fatto nulla per rimetterlo in circolo.
Dal vangelo secondo , ecco la fotografia del basket italiano. Attuale, attualissima: «Si alzano sempre più frequenti e sempre più alti i lamenti dei dirigenti circa il dilagare tra i giocatori delle serie A di un atteggiamento sempre più alienato, distaccato, privo di senso di appartenenza, senza attaccamento alla famosa maglia, annegati in un limbo di indifferenza, solo mossi dal narcisismo del proprio tabellino per un approdo prossimo a un diverso porto. I dirigenti trovano questo atteggiamento incomprensibile mentre a me appare semplicemente come l’ovvio
esito delle scelte suicide di un basket che ha rinunciato a governare se stesso. Come si può pretendere che ci sia attaccamento alla maglia in giocatori che migrano in continuazione da una squadra all’altra, mossi solo dal “senso del business” dei loro agenti? Come possono motivarli i loro allenatori i quali, a loro volta, siedono sulle panchine di serie A selezionati dagli stessi agenti con lo stesso “senso del business”? Come può esserci senso di appartenenza in squadre che non costruiscono più i loro giocatori, perché pensano sia più conveniente affidarsi al sotto-mercato degli stranieri-turisti-per-caso che hanno come sola bussola le promesse dei loro agenti. Come può esserci orgoglio di appartenenza a un territorio, a una tradizione, a una città, per giocatori nomadi, pastori erranti che non conoscono l’arte di far crescere una pianticella?».
Un post, 206 “mi piace”, 260 condivisioni: esiste ancora qualcuno che ama questo sport martoriato. E forse non è un caso che il tutto sia partito da «un vecchio» alla stregua di quel recentemente snobbato per il futuro della Legabasket.
Dietro al pensiero del Vate si sono accodati tifosi, addetti ai lavori, semplici appassionati. E il suo scritto è diventato un grido di dolore trasversale ai colori: qualcuno lo ha addirittura impacchettato e spedito alle squadre di propria fede (Pallacanestro Varese compresa). Un fiume in piena i commenti, tanto da aver “costretto” Bianchini a ritornare sull’argomento: «Questo post è stato da me postato un anno fa e ora la situazione sta leggermente cambiando… Però se penso a Barcellona o a Madrid mi vengono in mente subito giocatori spagnoli. Se penso a Pana e Olimpiakos mi vengono in mente giocatori greci. Se penso a Maccabi giocatori israeliani. Se penso a Milano mi viene in mente solo Gentile. Se penso a Sassari mi viene in mente Logan. Il problema del senso di appartenenza non dipende dal passaporto ma dalla continuità degli organici».
Ed è proprio questa la frase da cui prendere il maggiore spunto: l’appassionato medio ha ormai superato la funesta scia delle liberalizzazioni dei passaporti (da Bosman in giù) che hanno reso le compagini sportive delle Torri di Babele. Ma non trova il modo di metabolizzare che le squadre per cui tifa siano diventate delle “sliding doors” aperte tutto l’anno, varcate da mestieranti senza arte né parte e destinati a ballare il loro tango solo per qualche mese (se le cose vanno male anche meno). Qui a Varese, per esempio, sono tre anni che assistiamo a un via vai degno di una sala d’attesa di una stazione ferroviaria. E altrove non è diverso. Non resta che riporre il vangelo.