In questa prima, turbolenta fase di campagna elettorale varesina, una delle parole più (ab)usate è sicuramente civismo.
Alcuni degli attori in campo si contendono il ruolo a suon di affermazioni dal sapore orwelliano come «io sono più civico di te». L’effetto immediato è di confondere le idee all’opinione pubblica, che anziché trovarsi di fronte al dilemma amletico (civismo o partitismo?), viene trascinata in una commedia pirandelliana, dove alcuni personaggi sono ciò che appaiono, mentre altri celano dietro alla maschera civica il volto rugoso e stralunato dei partiti.
Ecco, dunque, un primo prezioso distinguo, utile a comprendere appieno chi è davvero civico e chi, al contrario, rappresenta un civismo di comodo, un costume nel quale albergano le solite incrostazioni partitiche. Tanto per incominciare, un candidato civico nasce nella (e dalla) città. Basta sfogliare un qualunque vocabolario per leggere che l’aggettivo civico riguarda tutto ciò che “è proprio della cittadinanza in quanto parte di essa”. Una definizione che mal si concilia con i candidati decisi nelle sedi di partito. Questi candidati, infatti, seppur privi di una qualunque tessera, non hanno nulla di civico: sono foglie di fico, pronte a coprire le pudenda di partiti ormai deboli, impopolari e a caccia di paraventi dietro ai quali nascondersi. Sono traghettatori, disposti a portare avanti le solite vecchie liturgie, la tipica logica del bilancino, le immancabili e collaudate spartizioni di palazzo. A guidare la città, in caso di vittoria non sarebbero i vincitori, ma gli sconfitti, cioè i partiti. Battuti dalla Storia e ripescati da un gioco di prestigio. Nulla cambierebbe. Nulla potrebbe mai cambiare. A decidere sarebbero sempre gli stessi: un pugno di esponenti privilegiati senza alcun contatto con le attese, i bisogni, la carne viva della gente.
Un candidato civico è tutt’altra cosa. Un candidato civico si confronta coi partiti, non soccombe ad essi. Un candidato civico risponde ai cittadini, non ai segretari politici. Un candidato civico non viene scelto dai burocrati, ma dal popolo: una parola che certa politica ha colpevolmente rinchiuso nei recinti del Novecento e che cert’altra ha superficialmente cavalcato. Ma che è tempo di liberare, nobilitare, riscoprire, ascoltare e, una buona volta, coinvolgere.