Sono stati pubblicati sull’European Heart Journal i risultati di uno studio condotto dal Dipartimento cardiovascolare degli Ospedali Riuniti di Bergamo su 124 pazienti dai 2 agli 81 anni affetti da cardiomiopatia ipertrofica, malattia genetica del cuore caratterizzata da un ispessimento delle pareti cardiache, e sottoposti a intervento chirurgico di miectomia tra gennaio 1996 e luglio 2010.
Dallo studio emerge che la sopravvivenza è stata eccellente e la maggior parte dei pazienti ha riscontrato importanti miglioramenti nella sintomatologia già a partire dai primi giorni dopo l’intervento, con una netta riduzione del rischio di morte improvvisa. Risultati simili a quelli registrati alla Mayo Clinic di Rochester (Minnesota – USA) e in altre grandi strutture nordamericane, come confermato da Joseph Dearani, direttore della Cardiochirurgia Pediatrica della Mayo Clinic, che allo studio condotto a Bergamo ha dedicato un editoriale sull’European Heart Journal.
I dati raccolti a Bergamo confermano le linee guida dettate dall’American College of Cardiolgy, dall’European Society of Cardiology, dall’American College of Cardiology e dall’American Heart Association in merito al trattamento della cardiomiopatia ipertrofica, secondo le quali l’intervento chirurgico è da considerarsi il trattamento più efficace per pazienti affetti da ostruzione del del ventricolo sinistro, causata da cardiomiopatia ipertrofica con gravi sintomi di insufficienza cardiaca.
In Europa, negli ultimi anni, si è sviluppata una tecnica alternativa chiamata “ablazione alcolica del setto”, che permette di ridurre la porzione di tessuto in eccesso, iniettando, in anestesia locale, una piccola quantità di alcool nella coronaria che fornisce sangue al setto interventricolare per “bruciare” il tessuto cardiaco. Dati recenti indicano però la possibilità che la cicatrice causata dall’ablazione aumenti il rischio di aritmie ventricolari molto pericolose, a differenza invece dell’intervento chirurgico. L’ablazione alcolica del setto andrebbe dunque eseguita soltanto quando non è possibile ricorrere all’intervento chirurgico, in presenza di particolari fattori di rischio per la chirurgia.
“Crediamo che ai pazienti debba essere offerta l’opzione chirurgica, come indicato nelle linee guida internazionali – sostiene Paolo Ferrazzi, direttore del Dipartimento cardiovascolare -. La nostra esperienza dimostra che è possibile ottenere risultati molto positivi, a condizione che esista un’équipe preparata e con esperienza, che lavori in stretta collaborazione con altri centri specializzati nel trattamento medico dei pazienti affetti da cardiomiopatia ipertrofica»
Condizioni ribadite anche da Dearani nel suo editoriale, dove raccomanda l’esecuzione della miectomia in centri specializzati, con una conoscenza approfondita della malattia e con un approccio multidisciplinare, che spazi dalla cardiologia alle cure intensive, dall’imaging alla genetica. L’intervento chirurgico infatti è molto complesso e necessita di estrema attenzione, ma può essere efficamente eseguito e padroneggiato, come insegna l’équipe dei Riuniti di Bergamo.
«Negli ultimi anni abbiamo visto un aumento esponenziale del numero di malati operati agli Ospedali Riuniti di Bergamo, che ha permesso al nostro Centro di divenire leader europeo, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, nel trattamento della miocardiopatia ipertrofica ostruttiva. E’ motivo di grande soddisfazione – spiega Attilio Iacovoni, cardiologo dei Riuniti con grande esperienza su questa patologia – seguire questi pazienti prima durante e dopo l’intervento chirurgico. Infatti i miglioramenti clinici in pazienti, spesso molto giovani, sono evidenti ed eclatanti.»
Miglioramenti sottolineati anche da Dearani, secondo il quale simili risultati dovrebbero dare fiducia alla comunità scientifica, soprattutto europea, affinché la via chirurgica venga intrapresa più spesso e con più convinzione, perché, come dimostra l’esperienza bergamasca, rimane il gold standard per la cura della cardiomiopatia ipertrofica, garantendo risultati sicuri in termini di sopravvivenza e qualità della vita dei pazienti.
a.ceresoli
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