«Vado io a fare il contadino in Svizzera». Ce l’hanno detto in tanti, ieri, telefonando in redazione dopo aver letto il pezzo sulle aziende agricole d’oltre frontiera che denunciano penuria di personale, arrivando ad offrire assunzioni persino ai rifugiati.
La prospettiva di uno stipendio da tremila euro al mese per zappare la terra, è decisamente allettante, anche per merito del rafforzamento del franco che sta ridisegnando la mappa dei rapporti economici da un lato all’altro
del confine italo-elvetico.
Anche se fare il contadino è tutt’altro che un lavoro semplice: si parla di occuparsi della raccolta della frutta, della verdura e dell’uva, lavori pesanti e in gran parte stagionali.
Ma in provincia di Varese, un tempo isola felice della quasi piena occupazione, questi anni di crisi hanno lasciato uno strascico pesante, e oggi più dell’8% della popolazione attiva risulta senza lavoro.
Così non c’è da stupirsi che tanti varesini e varesotti, alla prospettiva di un lavoro, per quanto impegnativo e faticoso, non abbiano esitato a chiedere informazioni.
La Svizzera, per noi delle province di confine, ormai sta diventando come “Lamerica” degli albanesi di fine anni ’80 di un film di Gianni Amelio. Era l’Italia che da Tirana e Valona vedevano in televisione, quell’Italia che da Brindisi era così vicina, così come per noi lo sono Mendrisio e Locarno.
E lì, tra i vigneti e le serre di pomodori potrebbe celarsi la speranza anche per tanti nostri disoccupati. Pronti a sfatare tutti i miti dei “bamboccioni” o degli italiani (quelli di Fallitaglia, come li chiamano certi organi d’informazione del Canton Ticino) a caccia solo del “posto fisso” e buoni solo per rubare il lavoro agli “indigeni”. Perché poi, guarda caso, quando c’è un lavoro a disposizione anche al di qua del confine, dal cameriere del Mc Donald’s ai sei mesi in Expo, le candidature non mancano mai.
Piuttosto dovremmo chiederci, o meglio dovremmo chiedere alla nostra classe politica e dirigente, se, al netto di un costo della vita sicuramente diverso, possa avere ancora un senso il fatto che tra la Valcuvia e il Piano di Magadino possa esserci una tale sproporzione nei livelli salariali persino in agricoltura, e se una realtà produttiva come Varese, che oltre ad avere un tessuto manifatturiero che ancora resiste ha anche delle grandi potenzialità nel settore agroalimentare, non debba poter offrire condizioni favorevoli e agevolazioni fiscali a chi fa impresa, per poter affrontare la “concorrenza” del più competitivo Canton Ticino. Ma questa è un’altra storia.
Pragmatici o forse disillusi, i varesini si accontenterebbero di andare a vendemmiare per portare a casa uno stipendio più che dignitoso.
Ma ci sarà davvero spazio per loro? «Ogni anno – spiegano dall’Unione Svizzera dei Contadini, che è l’organizzazione “mantello” dell’agricoltura della Confederazione – il settore occupa tra le 25mila e le 35mila persone straniere, giacché nessun cittadino svizzero o quasi è disposto a svolgere questi lavori. Nella maggior parte dei casi questa manodopera proviene da Polonia e Portogallo». I frontalieri in agricoltura invece sono appena duemila in tutta la Svizzera.
Per chi vuole fare sul serio, e provare la strada del “frontaliere della terra”, il consiglio che possiamo dare è di rivolgersi all’Unione Svizzera dei Contadini (www.sbv-usp.ch/it) o all’Unione dei Contadini Ticinesi (www.agriticino.ch). Sperando che le future normative sui contingentamenti dei lavoratori frontalieri non ammazzino anche questa speranza.