Caro papà, adesso che hai vinto – e sei sindaco di Laveno Mombello per la quarta volta dal 1980 – mi trovo a cercare di capire perché. Forse non ho più il polso della situazione, ma ti confesso che, quando ci hai detto che ci avresti riprovato, non ero per nulla fiducioso (oltreché per nulla contento: negli ultimi cinque anni ti sei dedicato a moglie, figli e nipoti in modo pieno. Che bello. Ma questo disappunto lo lasciamo da parte: della tua passione politica a noi figli è
sempre sfuggito qualcosa). Semplicemente, ero convinto che per gente come te non ci fosse più posto, che i cittadini – sotto perenne scacco dell’anti-politico di turno – avrebbero pensato: ancora tu? Sì, perché Ercole Ielmini è proprio vecchia scuola, vecchia politica, quella della formazione nel partito, della vita in sezione, delle strette di mano e dei caffè (a migliaia) sul lungolago, per farsi un’idea, per parlare con le persone. Possibile, mi chiedevo e mi chiedo, che in tempi di streaming e retweet piaccia ancora uno così?
Allora ho ripensato al sindaco Ielmini visto con gli occhi del figlio-bambino quale ero negli anni ’80; ho ripensato alle cene insieme, il momento in cui tutta la famiglia si riuniva al completo. Mi è sempre rimasto impresso il tuo divieto di parlare di denaro (mai saputo quanto guadagnassi a fare il maestro, figurarsi il gettone da sindaco), e in casa di soldi ce n’erano sicuro pochini. «Il denaro non deve essere un problema» ripetevi. Siamo cresciuti con l’idea che tutto ciò che abbiamo sia gratis e in prestito.
Poi mi è venuto in mente di quanto ti desse fastidio (di più) che noi ti chiedessimo se era vero che – in ragione della mole di persone che un sindaco è portato a conoscere – avevi aiutato il figlio di tizio a trovare un lavoro o un appartamento in affitto. Non si trattava del rampollo dell’assessore o del direttore della farmacia: erano in genere ragazzi con alle spalle problemi di dipendenza o quelli che, adesso, si chiamano svantaggiati. Loro venivano all’oratorio e ci ringraziavano e noi non sapevamo perché.
Quindi, ho ripensato ad una tua massima: «Ricordatevi – ci arringavi – che in politica nessuno ti dice “grazie”.Ce n’è abbastanza, credo. In fin dei conti, i cittadini ti hanno voluto perché sanno che l’Ercole e quelli come lui non vanno implorati, né si deve dir loro grazie.
Sanno che per gente come te fare politica significa essere dentro uno spazio pubblico, aperto, gratuito, dove l’unica categoria davvero valida è la generosità. Solo così è possibile occuparsi e prendersi cura del bene comune.
Mi accorgo che sono parole davvero del secolo scorso, ma credo che gli elettori certe cose le captino: appartieni ad una generazione che non sarà mai bauscia alla Berlusca, che non avrà mai il puntiglio da primadonna alla maniera di certa sinistra, che non parlerà mai al ventre della gente alimentandone il senso di paura, che non avrà mai la prosopopea da salvatore della patria di Grillo e affini. E non c’è astensionismo che tenga.
Ai miei occhi, quelli come te sembrano tanto il protagonista di “Ma mi”, il partigiano che col Padola, il Rodolfo e il Gaina cade vittima delle angherie naziste. Uomini con la schiena dritta, che non confondono mai mezzi e fini, per cui la parola data ha un valore e la libertà non vale una spiata.
“Mi sun de quei che parlen no”, dice il partigiano. Buon (quarto) viaggio, sindaco Ielmini.