«Dichiarazioni false. Ha voluto aiutare il vecchio amico Stefano Binda. Prova ne è il gesto d’intesa rivolto all’imputato dal teste non appena entrato in aula. Quell’occhiolino smaccato e ripreso chiaramente dalle telecamere all’indirizzo di Binda poco prima di sedersi al banco dei testimoni».
Il pm Gemma Gualdi apre con un colpo di scena la nuova udienza, celebrata ieri, per l’omicidio di Lidia Macchi, la giovane studentessa varesina assassinata con 29 coltellate nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987. Per l’assassinio della militante di Comunione e Liberazione è stato arrestato, il 15 gennaio 2016, Stefano Binda, appunto, imputato davanti alla Corte d’Assise presieduta da Orazio Muscato, cinquantenne di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia e come lei aderente a Cl all’epoca dell’omicidio. Binda ha sempre detto di trovarsi a Pragelato mentre Lidia veniva uccisa.
L’imputato ha sempre affermato di aver partecipato a una vacanza organizzata di Gioventù Studentesca dall’1 al 6 gennaio del 1987. E nell’udienza del 14 giugno, a fronte di molti «non ricordo se Binda fosse presente o meno» testimoniati dagli altri partecipanti alla gita sulla neve, un teste, il commercialista luinese Gianluca Bacchi Mellini, aveva detto di «ricordare perfettamente che Binda era presente e dormiva nel letto a castello sotto il mio».
Bacchi Mellini si era ricordato il dettaglio continuando a pensare a quella vacanza dopo l’arresto di Binda. Quando è entrato in aula, però, il commercialista avrebbe fatto l’occhiolino a Binda, per l’accusa un chiaro gesto d’intesa. «Il teste ha mentito per aiutare un vecchio amico», ha detto la Pm.
«Ho inviato gli atti in procura», in sintesi Bacchi Mellini è stato denunciato dal pubblico ministero per falsa testimonianza «e vedremo poi se dovesse configurarsi anche il favoreggiamento». La prova starebbe in quell’occhiolino rivolto all’imputato. «Inaccettabile – hanno detto i difensori di Binda Sergio Martelli e Patrizia Esposito – far passare il messaggio che chiunque ricordi dettagli di fatti relativi a 30 anni diversi da quelli dichiarati in precedenza, ricordi arrivati da uno sforzo di memoria, sarà denunciato».
La corte ha acquisito le immagini dell’occhiolino «per valutare l’eventuale non attendibilità del teste».
In realtà, nel corso dell’udienza celebrata ieri, l’alibi di Binda ha subito ben altro scossone. È don Marco Ballarini, coadiutore della parrocchia di Brebbia all’epoca dei fatti, a riportare Binda qui togliendolo da Pragelato, come invece sempre asserito dall’imputato. Lo fa, don Marco, riportando una conversazione che ebbe un paio di mesi dopo l’omicidio con Binda e don Giuseppe Sotgiu, allora non ancora ordinato sacerdote, e amico inseparabile di Binda. «Sotgiu mi confessò di essere preoccupato perché era stato interrogato in relazione all’omicidio e di non ricordare dove si trovasse quando Lidia fu uccisa – ha detto il sacerdote – Binda, molto più tranquillo, gli disse: non preoccuparti, eravamo insieme. Siamo sempre insieme, eravamo insieme anche quella sera. I due avrebbero trascorso la serata in una birreria appena aperta nella zona di Varese insieme come facevano spessissimo».
Dunque Binda non era a Pragelato ma a Brebbia mentre Lidia veniva uccisa? Il sacerdote riporta le sue stesse parole. Parole che fanno vacillare l’alibi della vacanza lontana da Cittiglio dove il cadavere di Lidia fu trovato il 7 gennaio. Binda potrebbe aver cercato di confortare un amico. O magari non sapeva con esattezza quando Lidia venne uccisa. Ma la testimonianza di don Marco ha rimesso in discussione in modo forte l’alibi dell’imputato. Tanto da spingere il presidente Muscato a far ripetere al teste quelle dichiarazioni in modo che fossero chiarissime.