Per Meo Sacchetti è un cerchio che si chiude. Perché se solo si pensa a quella finale con Pesaro, a quel ginocchio che fece crack sul più bello, il 24 maggio del 1990 a Masnago, non si può che credere nel destino di un uomo che questo scudetto lo ha inseguito per 25 anni.
Ha avuto il coraggio di aspettare, di fare gavetta, e con la pazienza dei grandi nel giro di un anno si è ripreso tutto: Supercoppa, Coppa Italia e scudetto. La sua parabola è quella di un uomo semplice, alla guida di un esercito di scalmanati.
La storia di un uomo che dedica il successo a sua moglie, e ci scherza anche su: «Dietro un grosso uomo, perché non so se sono grande, ma di sicuro sono grosso, c’è una grande donna. E lei è questo. Questi playoff sono stati intensi, vincerli per me è la chiusura di un cerchio. Non capita spesso di provare emozioni del genere, e soprattutto di vincere degli scudetti».
Gli hanno detto fin troppo volte che,
con quel suo modo di intendere il basket, il suo run&gun, non avrebbe vinto mai nulla. Senza mai montare nessuna polemica, ha avuto ragione lui. E non ha avuto paura di dirlo a caldo, dopo la partita.
Meo ha sempre tenuto quel suo sguardo serafico fisso verso l’orizzonte, confidando nel destino, cercando sempre la quadratura di quella storia lunga 25 anni. Ci è riuscito, è stato premiato, ed è giustamente diventato l’eroe di un mondo intero, quello sardo, che è un mondo a parte, che si ricorderà questa storia per sempre.
La racconteranno alle generazioni, parleranno della grande Sassari che sbarca ai playoff da quinta in classifica e vince dopo due serie portate a gara 7: «Negli ultimi anni, l’approccio alla Dinamo è cambiato – riflette Meo – Siamo diventati il simbolo di un’isola intera ed è un aspetto che ci ha dato stimoli ulteriori. Abbiamo portato in alto il nome ed i colori di questa regione, non potevamo chiedere di meglio».
Per la Sardegna, ora Meo Sacchetti è un eroe, come suo figlio Brian che ha blindato la semifinale contro Milano. Quel ragazzo che in silenzio e con umiltà si è conquistato il suo spazio nella squadra campione d’Italia.
Lo stesso che nel ’90, a quattro anni, ha visto i sogni di suo padre svanire su un ginocchio in pezzi. L’abbraccio dopo gara 7 al Forum con l’Olimpia racchiude tutto questo, c’è tutto il cammino di due grandi uomini, iniziato proprio in quella sera del 24 maggio del ’90 e concluso venerdì.
Meo è come Gigi Riva, un uomo adottato da un popolo che lui stesso ora ha portato al successo, condottiero di un gruppo di ragazzi capace di non mollare mai.
Un paragone che lo inorgoglisce: «Lui giocava, io no. Però in questi ultimi mesi ci hanno paragonato molto a quel Cagliari del ’70. La nostra è un’esperienza molto simile. Siamo riusciti a risollevare l’orgoglio di un popolo intero, proprio come loro».
Un gruppo che si è rialzato in piedi quando ormai Reggio sembrava avere nove dita su dieci sullo scudetto. In gara 6, dalle tribune del PalaSerradimigni, nel momento più difficile, il popolo sardo ha intonato “Faccia di trudda”, una tarantella sassarese, e tutto è cambiato. “Soggu faccia di trudda e mi ni vantu”, sono una faccia di bronzo e me ne vanto.
Sfacciataggine, tutto per tutto: via gli ormeggi, si affronta la tempesta.
E lui, il Meo, questo miracolo ce lo spiega così: «Quando giochi i playoff, sei sempre in bilico. Le ultime cinque partite sono state qualcosa di incredibile, sembrava una sfida a scacchi. Prima sembrava pendesse da una parte, poi dall’altra. Quando si arriva a questo punto, è importante essere bravi a cogliere le opportunità, e noi ci siamo riusciti».
Il finale, mentre dalla piazza risuona il caos di una festa mai vista, è una carezza ai vecchi amici: «So che molta gente a Varese ha tifato per noi, non posso che ringraziare». Grazie a te Meo: “la nostra stella sei tu”.