Siamo fatti così, abituati ad indignarci e alzare la voce per le cose che sono già successe e non possiamo cambiare. Siamo pieni di commemorazioni, giornate della memoria e minuti di silenzio gonfi di ipocrisia: ci puliscono le coscienze, ci chiudono gli occhi davanti a quello che ci accade attorno.
E non ci accorgiamo che la brutalità dei campi di concentramento, quella brutalità che ci accappona la pelle, ce l’abbiamo oggi in Libia, sotto casa, dove migliaia di disperati muoiono schiacciati dalla violenza più bieca sognando un lavoro che li renderà liberi. E non ci accorgiamo che poco è cambiato rispetto a un passato in cui certa stampa era plasmata e asservita a un certo regime, a un certo modo di raccontare e presentare la realtà (il titolo di Libero sulla bambina morta di malaria è un condensato di violenza, menzogna e doppiogiochismo).
Quando si parla delle atrocità del passato ci rimbomba sempre una domanda: ci chiediamo come abbia fatto la gente normale, la gente perbene, a non vedere quello che stava accadendo. Chissà. Forse tra mezzo secolo, chi verrà dopo di noi, dirà la stessa cosa. Come hanno fatto a non rendersi conto di nulla e a tacere? Iniziamo a trovarci una scusa buona. Perché no, “non lo sapevamo” davvero non potremo dirlo.