«Col Perugia corremmo per qualcosa di grande»

Domenica il Varese sfiderà il Perugia in un incontro che sa di nobiltà: riviviamo il passato di questo match raccontata da Franco Salvadè

Domenica 13 dicembre 1981: al Franco Ossola c’è Varese-Perugia. La squadra di Fascetti vince 3-2 (3’ Morbiducci, 17’ e 22’ Strappa, 32’ Auteri, 70’ Giovanni Pagliari) e vola al comando della classifica: rimane una delle partite-icona della generazione Fascetti, e forse dell’intera storia del Varese. La formazione di quel giorno è una filastrocca che chi ha i capelli salepepe recita a memoria: Rampulla, Vincenzi, Braghin, Strappa, Salvadè, Cerantola, Turchetta, Limido, Bongiorni, Mastalli, Auteri; nella ripresa entra anche Di Giovanni.
Il Varese è solo in testa e sogna la A. Franco “Gildo” Salvadè, cuore e midollo biancorosso, pretoriano di Maroso e poi di Fascetti, alla vigilia del match di domenica è l’uomo giusto per rivangare quel precedente straordinario.

Formidabile quell’anno, formidabile quella squadra che giocava nel futuro. Come l’Olanda di Cruijff – alla quale, forse inconsapevolmente, un po’ s’ispirava – il Varese di Fascetti fece la rivoluzione ma rimase con un pugno di mosche.


Vent’anni avanti agli altri. Grazie alla preparazione atletica in campo volavamo: giocavamo tutto sulla corsa, sulle sovrapposizioni, sulla manovra avvolgente. Facevamo tanto pressing in mezzo: le partite le vincevamo lì. Poi c’era la qualità: Mastalli era una spanna sopra. E davanti c’era Auteri, che segnava a raffica. Tutti giovani: gli altri non ci consideravano.

La partita col Perugia fu lo spartiacque psicologico. Per tre motivi. Primo: la giocammo da dio. Secondo: ci convincemmo di essere davvero forti e di poter arrivare in fondo. Terzo: gli avversari capirono che facevamo sul serio.


Sì. Le metto vicino il 2-0 alla Samp e il 3-1 al Bari, non a caso tutte a Masnago. In casa eravamo imbattibili, l’entusiasmo della gente ci gasava.


Facile, la doppietta di Strappa. Era un mediano, un incursore, fare gol non era il suo mestiere. Però, in un calcio tatticamente bloccato, facevamo degli sganciamenti da dietro un’arma micidiale. Io e Stefano andavamo su a turno, uno scattava e l’altro copriva: e ogni volta creavamo qualche pericolo. Quel giorno lui esagerò e ne segnò due, bellissimi, in pochi minuti.

Prendemmo subito gol. Il Perugia era pieno di bei nomi: Frosio, Dal Fiume, Caso, Butti. Veniva dalla A e voleva tornarci. Noi eravamo pivelli, sotto al primo tiro potevamo sbroccare. Invece da lì in poi, per mezz’ora, li ammazzammo, giocando a un ritmo per loro insostenibile. E gliene facemmo tre, uno dietro l’altro.


Quelli di Strappa sì. Due perle che spiegavano il suo fiuto e il suo talento. Il primo fu frutto del pressing sistematico: rubò palla in mezzo, avanzò, dribblò un avversario e poi tirò. Il secondo fu un inserimento perfetto su un’azione manovrata.


Spendevamo tanto, eravamo generosi, non facevamo mai calcoli. Dovevamo andare in serie A.


No, dopo più di trent’anni non lo sappiamo ancora. All’Olimpico, sul 2-0 per noi dopo un quarto d’ora, la partita era finita. Se ci penso divento ancora matto.


La Cavese, certo: infilati in contropiede alla fine dopo aver dominato. Sa cosa? Noi correvamo come le squadre di oggi: se avessimo avuto anche le rose ampie e il turnover di oggi, non avremmo avuto cali né perso quei punti. Purtroppo le squadre erano di 15-16 giocatori, la formazione era più o meno sempre la stessa, qualcosa si pagava.


Certo, anche se non l’ho ancora visto dal vivo. Mi piace la linea verde, la scelta di valorizzare i giovani. Mi piace Bettinelli, uno di noi. Mi piace Neto: sarebbe stato bene in quel Varese, come giocatore, come persona e come personaggio. Puntare sul vivaio alla lunga è la ricetta giusta, in campo e fuori. Per farlo servono tre cose: osservatori bravi, l’umiltà di scandagliare i campetti per scovare i talenti e, una volta presi, la capacità di plasmarli.


Abbiamo vissuto stagioni di sogni infranti, pagando ingaggi alti a giocatori scesi dalla A: una politica non da Varese. La missione storica di questa società è scoprire e far crescere i ragazzi. Ai nostri tempi non ricordo “elefanti”: a parte i totem Vincenzi, Cerantola e Arrighi, il più vecchio era Mastalli, aveva 23 anni. Come noi sfiorammo la A, così i biancorossi di adesso possono salvarsi : anche con la penalizzazione.