«Con il voto si sceglie il tipo di democrazia»

Giorgio Grasso spiega, in maniera neutrale, cosa cambierà (o non cambierà) dopo il Referendum

Referendum Costituzionale, la parola (neutrale) all’esperto: «Il 4 dicembre non è in gioco la democrazia. Ma si fronteggiano due diversi modi di intendere il funzionamento di un sistema democratico». Al di là delle ragioni del Sì e del No, il parere di un “tecnico” della materia: Giorgio Grasso, professore associato confermato di Istituzioni di diritto pubblico all’università dell’Insubria, già protagonista di una lunga serie di dibattiti sul referendum, l’ultimo giovedì sera a Besozzo.

È chiaro che se si va a toccare più di un terzo degli articoli della Costituzione, si dovrebbe riuscire a trasformare il funzionamento della macchina amministrativa. Uno degli obiettivi della riforma, attraverso il superamento del bicameralismo paritario, è certamente quello di provare a dare più efficienza al funzionamento della forza di governo, e anche un po’ più di forza al governo, pur restando la forma di governo di tipo parlamentare.

Le modifiche vanno a cambiare il funzionamento della forma di governo: ad esempio, nel momento in cui il Senato non voterà più la fiducia e dentro il procedimento di approvazione della legge, per la maggiorparte delle materie, l’eventuale opposizione del Senato potrà essere superata dalla Camera che decide in via definitiva. È chiaro che se il rapporto fiduciario sarà soltanto tra governo e Camera dei Deputati e se la Camera, fatta eccezione per un limitato numero di materie, deciderà in via definitiva sul procedimento di formazione della legge, questo dovrebbe avere un effetto nella direzione che lei indica.

È vero che il bicameralismo paritario ha reso difficoltoso il procedimento di approvazione delle leggi, e in alcuni frangenti ha reso più deboli i governi, ma è altrettanto un fatto che tante difficoltà di funzionamento della nostra forma di governo non sono dipese soltanto dal bicameralismo paritario, ma anche da come il sistema politico-partitico è stato costruito. Pensiamo ai governi molto deboli, quasi monocolori, della Dc nella Prima Repubblica. Ma è vero anche che in certe fasi politiche, come il 2012 quando si dovettero approvare leggi fondamentali come la ratifica del Fiscal Compact e del trattato sul meccanismo europeo di stabilità, il bicameralismo paritario non fu un ostacolo. Certo, senza il bicameralismo paritario nel 2013 Bersani avrebbe potuto formare un governo, e nel 2008 il governo Prodi non sarebbe caduto. Ma sul funzionamento del sistema politico incidono fortemente i sistemi elettorali.

È chiaro che non è oggetto di referendum, ma una volta effettuate le modifiche sulla forma di governo, diventa un elemento cruciale come si andrà a formare la maggioranza alla Camera. Con una legge come l’Italicum, scritta solo per la Camera scommettendo che la riforma costituzionale sarebbe passata, il giudizio sulla riforma non può non essere condizionato. Non possiamo proprio metterci due fette di prosciutto crudo sugli occhi e far finta che la legge elettorale non ci sia.

Sulla legge elettorale ho un giudizio molto critico. Il 40% (soglia minima per accedere al premio di maggioranza al primo turno, ndr) è ragionevole come punto di equilibrio tra governabilità e rappresentanza. Quante forze politiche hanno mai superato quella soglia in Italia? Se una singola forza ha il 40%, che governi. Ma con il ballottaggio, senza possibilità di accordi e apparentamenti, il premio diventa sproporzionato, perché potrebbe finire ad una lista che ha ottenuto al primo turno una percentuale davvero minoritaria, tanto più che non è stata inserita alcuna disposizione che renda valido il ballottaggio solo una volta superata una certa soglia di votanti, come il quorum dei referendum per intenderci.

Non credo sia in gioco un pericolo per la democrazia. Emerge un diverso modello di democrazia. È un fatto che con il Senato non elettivo si riducano gli spazi di partecipazione, ma senza che venga compromesso il carattere cruciale del principio democratico, se pensiamo, ad esempio, che anche in Inghilterra la Camera dei Lord non è mai stata elettiva.

È un altro passaggio cruciale. La riforma cerca di mettere a posto i “guasti” della riforma del Titolo V, che ha prodotto forte litigiosità sulle competenze concorrenti. Che certe materie, come le grandi reti di trasporto, si dovessero riportare alla potestà legislativa dello Stato, forse lo si sarebbe dovuto fare già dopo la riforma del 2001. Ora, con la riforma, materie come la tutela della salute finiscono nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, pur con un ruolo regionale che non è

detto che escluda il rischio futuro di contenziosi. Anche i fautori del Sì riconoscono che la riforma introduce un forte accentramento. È un fatto tipico degli anni di crisi, in cui lo Stato tende a riprendersi molte competenze. In particolare, c’è quella clausola di supremazia, che dà al governo la potestà di intervenire nelle materie regionali. Non torniamo al ’47, ma per chi ritiene sia importante una visione forte del principio di autonomia, la compressione è di rilievo, tanto più che porterà di nuovo le Regioni ordinarie ad allontanarsi molto dalle Regioni a statuto speciale, che non sono state toccate perché, in molti lo ammettono onestamente, altrimenti non ci sarebbero stati i voti per far passare la riforma.

C’è stato un periodo in cui, partendo dall’istanza della Lega Nord, tutti volevano il federalismo fiscale. E aveva cominciato a dare qualche frutto, se pensiamo al meccanismo dei costi standard in sanità. Poi la crisi ha eliminato il termine federalismo fiscale per virare su altri concetti, come la spending review. E da lì è nata l’idea di contrarre fortemente l’autonomia territoriale, mentre il federalismo fiscale, depurato di certe incrostazioni ideologiche delle origini, sembrava il modo con il quale andare ad individuare ciò di cui gli enti locali avevano bisogno, garantendo il principio di territorialità ma anche il contenimento dei costi.

Con la riforma la materia che spetta allo Stato è stabilire le disposizioni generali, mentre le Regioni si occuperanno di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari. Sembrerebbe una sorta di amministrativizzazione, anche se le Regioni avranno ancora un ruolo nel gestire i servizi sanitari. Ma se alla fine i cittadini ci guadagneranno oppure no in termini di “paniere” delle prestazioni sanitarie, onestamente non saprei dare una risposta.

Per l’uomo della strada non è facile entrare dentro il contenuto della riforma, anche se è importante lo sforzo di informarsi il più possibile, provando ad aprire il testo o partecipando ai confronti. Va detto che il testo non è scritto benissimo, e anche se passerà la riforma servirà un lavoro di messa a regime, tra leggi di attuazione e regolamenti parlamentari. Del resto, è vero, se quell’accordo politico avesse tenuto, probabilmente il referendum, che è un’eventualità nel procedimento di revisione costituzionale, non sarebbe stato nemmeno necessario.

Può essere che nella riforma ci siano questioni che si apprezzano e altre che vengono viste come criticità. Bisognerebbe mettere sulla bilancia gli uni e gli altri aspetti, sapendo che forse abbiamo di fronte due diversi modi di intendere il funzionamento di un sistema democratico. Da una parte, uno che si basa sul momento della decisione, che vede nella stabilità e nella forza degli esecutivi un valore di cui non si può fare a meno e che schiaccia tutto sul rapporto tra il governo e la sua maggioranza. Se si ha questa idea di democrazia, si voti Sì. Dall’altra, se si ritiene che il funzionamento di un sistema democratico non si debba basare sulla decisione del governo, ma necessiti anche di un momento di confronto tra il governo e il parlamento, che la stabilità è un valore che si può ottenere non solo già la sera delle elezioni ma anche con un lavoro più ampio che possa passare per governi di coalizione, ci si dovrebbe orientare per il No. Sono due prospettive sul funzionamento delle istituzioni democratiche.