, la guru italiana della panificazione, è molto più nota all’estero e lungo la Penisola che nella sua Varese.
Eppure questa valchiria bionda (uno e ottanta di donna), madre di due figli, sta all’arte bianca come Martha Argerich al pianoforte.
Tecnologo alimentare, è autrice di testi tecnici e universitari sulla panificazione: suoi sono “I segreti di un’arte”, Arte Bianca – Fippa, Roma, 2006 e “Pane e pizza: due mondi un’unica passione”, del 2012, oltre al saggio scritto a quattro mani con Giorilli (“Il pane: un’arte, una tecnologia”, Bologna, Lucisano – Zanichelli, 1996).
Attivissima anche in rete – le sue rubriche spopolano sul portale della Federazione Italiana Panificatori – proviene da diverse generazioni di fornarine e fornai bosini doc, di cui continua orgogliosa la professione.
Distinta e riservata, Simona ha un carisma che pochi possiedono nel suo campo. Coccolata dalle riviste gastronomiche come una profetessa (una per tutte, Pizza e Pasta), i suoi articoli sono dei cult fra gli addetti ai lavori ma anche per i semplici appassionati di impasti.
Da alcuni anni ha abbandonato l’insegnamento negli istituti professionali e vive facendo la spola tra Varese e il mondo, diffondendo il verbo del pane nostrano: l’ultimo aereo è stato quello di febbraio per la Danimarca.
Ma anche a Eataly a Torino, lo scorso settembre, ha stupito con le “Re(a)gioni del pane” (“ragioni” intese come tradizioni), un lavoro in cui ha presentato due pani per ogni regione italiana. In quell’occasione Simona, affiancata da a rappresentare l’arte bianca del Sud, ha tenuto un corso di due giorni sui pani tradizionali dell’alta Lombardia, omaggiando Varese con il pan giald impastato col mais, il pan con l’üga, i pani con le olive verdi e con le noci; dulcis in fundo, con un pan de mej filologico a base di miglio, da cui il nome, e ricoperto con la panigada, i fiori di sambuco essiccati: Simona, come una fata dei boschi, li coglie personalmente in piena primavera, distendendoli poi in pieno sole per tramutarli nell’antica spezia meneghina.
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