«Così si può vincere la SLA»

di Alberto Ceresoli
Dire di essere a un punto di svolta è forse prematuro, ma certo è che gli studi pre-clinici di Giulio Maria Pasinetti sulla SLA, la Sclerosi Laterale Amiotrofica, hanno suscitato un così largo interesse negli Stati Uniti che la Food & Drug Administration (l’ente americano che sovrintende anche ai farmaci) ha già fissato un incontro (lunedì prossimo) per poter trasformare gli studi in terapie efficaci nell’uomo.

Nato e cresciuto in Borgo Canale, Giulio Maria Pasinetti – 55 anni, da quasi trenta negli Usa, dove oggi dirige il Dipartimento di Neuroscienze del «Mont Sinai School of Medicine» di New York – è tra i maggiori scienziati al mondo nel campo delle malattie neurodegenerative, come il Parkinson, l’Alzheimer e la SLA. E proprio per i pazienti colpiti dalla Sclerosi Laterale Amiotrofica ha messo a punto una nuova speranza terapeutica.

Di cosa si tratta, professore?
«Con i ricercatori del Dipartimento di Neurologia del “Mont Sinai School of Medicine” abbiamo studiato un nuovo trattamento terapeutico con l’obbiettivo di attenuare la progressione della Sclerosi Laterale Amiotrofica e di proteggere i neuroni motori spinali presenti nel midollo spinale, coinvolti nella spirale degenerativa della Sclerosi Laterale Amiotrofica stessa, più semplicemente la SLA. I neuroni motori spinali – o motoneuroni –  sono le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che permettono i movimenti della muscolatura volontaria, compresi quelli della respirazione. La malattia è conosciuta anche come morbo di Lou Gehrig, dal nome del celebre giocatore di baseball statunitense deceduto proprio per questa patologia».

Quello che stupisce dei suoi studi è il rapido passaggio dalla sperimentazione animale a quella sull’uomo. Com’è stato possibile?
«Questa scoperta ha permesso al nostro gruppo di ricercatori di iniziare immediatamente la “trasposizione” delle evidenze sperimentali ottenute sugli animali direttamente nell’uomo, con la precisa finalità di mantenere una buona qualità della vita per tutta la durata della progressione della malattia. Le anomalie di certe strutture cellulari – in questo caso i mitocondri – nelle forme non genetiche di SLA,

possono essere monitorate nei neuroni motori spinali – all’interno del midollo spinale – attraverso modelli murini mutanti che sviluppano la SLA (per modello murino si intende un topo di laboratorio il cui studio consente di chiarire i meccanismi patogenetici alla base di malattie umane in quanto le sviluppa esso stesso, talvolta con un elevato grado di somiglianza con la patologia umana – n.d.r.). Quando i mitocondri – veri e propri centrali energetiche delle cellule, in grado di produrre l’energia necessaria alla sopravvivenza e alla funzionalità dei motoneuroni – vengono danneggiati, si innesca un cascata di effetti patologici che si manifestano appunto con la SLA. E proprio in linea con i meccanismi di disfunzione mitocondriale nella SLA, la preservazione del metabolismo che supporta la richiesta energetica dei motoneuroni spinali si sta rivelando come una delle terapie più promettenti per la cura della SLA».

Ed è su questo aspetto che lei e il suo gruppo ha finalmente fatto luce.
«Il gruppo ha voluto esplorare a fondo gli aspetti legati all’equilibrio energetico associato all’attività degli enzimi mitocondriali nel midollo spinale di topi geneticamente determinati a sviluppare la SLA. Usando dunque un particolare tipo di topolino da laboratorio, i nostri studi hanno evidenziato che quando le cavie sono state alimentate farmacologicamente con un “composto naturale derivato” – un trigliceride caprilico, una sorta di grasso naturale -, portando così ad un aumento dei corpi chetonici sierici nel sangue, è stata registrata una progressione della malattia significativamente più lenta e molto meno aggressiva. Inoltre, per tutto il tempo della vita del modello sperimentale, i sintomi della SLA nel topolino sono risultati quasi assenti. Lo studio è già stato pubblicato dalla prestigiosa “PLoS ONE”, la Public Library of Science. E proprio la pubblicazione sulla “Public Library of Science” è stata accolta con grandissimo entusiasmo, tanto che abbiamo avuto il permesso immediato di iniziare gli studi clinici nell’uomo. Il nostro problema, oggi, è proprio quello di riuscire a includere nel nostro protocollo sperimentale tutti i pazienti SLA che ne fanno richiesta, proprio perchè i dati preliminari sembrano essere molto incoraggianti».

La svolta dunque è in questo trigliceride caprilico.
«Con i nostri ricercatori abbiamo in pratica scoperto che nei topolini alimentati con una dieta ricca di trigliceridi a catena media (l’acido caprilico – che in natura si trova nel latte materno, nella noce di cocco e nel suo latte – n.d.r.), si è registrato un significativo aumento della circolazione dei corpi chetonici nel cervello, noti per la loro capacità di attraversare la barriera emato-encefalica ed entrare nei mitocondri, provvedendo a fornire l’energia necessaria per la funzione motoria che risulta significativamente migliorata, così come risulta decisamente migliorata la sopravvivenza dei neuroni spinali motori del midollo stesso. Il passo successivo della nostra indagine è stato quello di identificare un possibile meccanismo legato alla protezione dei motoneuroni e di trovare un trattamento a lungo termine a base di trigliceride caprilico attraverso il quale fosse possibile modificare la risposta metabolica dei motoneuroni spinali coinvolti nel meccanismo della SLA, promuovendo eventualmente anche attività mitocondriali, capaci cioè di dare la giusta energia ai neuroni motori spinali».

Il vostro è il primo studio di questo genere?
«Lo studio con al centro il trigliceride caprilico è il primo a verificare se l’utilizzo di tale catena media di trigliceridi è in grado di influire sulla progressione del danno motorio associato alla progressione della SLA attraverso la modulazione del metabolismo energetico mitocondriale».

È possibile che questo studio apra nuovi scenari anche per la cura di altre malattia neurodegenerative?
«Credo proprio che questi risultati possano aprire nuove vie di prevenzione terapeutica non solo per SLA, ma anche per altre malattie neurodegenerative, dove l’alterazione e la perdita di funzioni sembrerebbero iniziare il loro corso anche decenni prima dell’insorgenza della malattia. Siamo inoltre convinti che un approccio terapeutico caratterizzato da farmaci con effetti collaterali virtualmente inesistenti a lungo termine, possa non solo prevenire ma anche curare, rappresentando così un valido futuro terapeutico per la cura della SLA».

E Bergamo, ce la siamo dimenticata?
«Non lo dica nemmeno per scherzo: Bergamo è la mia città, ce l’ho nel cuore, sono e mi sento profondamente bergamasco, tanto che le dico una cosa: le porte del mio studio newyorkese sono aperte anche a tutti i malati bergamaschi di SLA che volessero sperimentare la cura. Di più ancora: se i neurologi del nuovo ospedale – che so essere molto bravi – volessero relazionarsi con me per avviare un progetto di cura “a distanza” per i loro malati, non hanno che da scrivermi, sarò felicissimo di collaborare con loro per realizzare questo obiettivo. Non dimentichiamo che la missione di ogni medico è quella di curare il maggior numero di malati possibile».
Alberto Ceresoli

Cos’è la SLA

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