Deformazione “mental-giornalistica” ai tempi della crisi: senti parlare di coworking e il pensiero va subito a uno dei tanti modi per sopravvivere nelle ristrettezze economiche del nostro presente.
Sbagliato: nel manifesto dei coworkers una crisi da combattere c’è, ma è quella delle idee, è la solitudine che caratterizza alcune forme di lavoro, sono le barriere che poniamo fra noi e gli altri.
Lo ha spiegato Massimo Carraro, padre di quella rete Cowo che ha fatto sbocciare il fenomeno in Italia: «Coworking significa camminare insieme, conoscersi e fare rete. La parola chiave è collaborazione: quella che nasce in modo naturale dalla condivisione di uno spazio comune». L’occasione è stata una serata di riflessione organizzata dal Faberlab di Tradate, la neonata officina-laboratorio di Confartigianato Imprese Varese che rappresenta una concreta esemplificazione dell’incontrarsi per sperimentare e innovare.
Il seme del coworking, gettato originariamente nella feconda Silicon Valley californiana, viene impiantato ai nostri lidi nel 2008, da Massimo e da Laura Coppola, partners nell’agenzia di comunicazione milanese MonKey Business: «Disponevamo di un mini loft di 140 metri quadrati che era diventato troppo grande per le nostre esigenze lavorative – ha raccontato Carraro – Credendo nello spazio come risorsa, ma soprattutto nelle relazioni interpersonali come valore imprescindibile da coltivare, abbiamo deciso di aprire il nostro ambiente di lavoro».
Un normale contratto d’affitto ad uso ufficio è ingessato nella formula del “6 anni+6 anni”; Massimo e Laura cercano di proporre qualcosa di più dinamico: «Molto meglio impegnarsi per una mattinata con un “nomad worker” di passaggio, e pazienza se l’affitto sarà più contenuto, vorrà dire che ne cercheremo tanti. In altre parole, la flessibilità del coworking ci parve da subito molto più adatta allo spirito del tempo».
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