Sudore, sangue, cuore. Polvere, pioggia, sole. Montagne, fiumi, deserti. Novemila chilometri di sofferenza, per arrivare sfatti e stanchi ad abbracciare la gioia più pura: quella che puoi provare solo un passo dopo il traguardo. Novemila chilometri iniziati là, nella culla il nostro mondo, e finiti dove finisce il nostro mondo: i novemila chilometri che separano Atene da Gibilterra.
Questa è la storia di Ottavio Missoni jr. Una storia di moto, di sogni, di strade, di dolori. Una storia che inizia con una telefonata, a Gennaio: «Sono stato contattato da Riders (una rivista di motociclismo, ndr.) – racconta Ottavio, appena atterrato in Italia -, e mi hanno chiesto se volevo partecipare, con una moto, una Ducati, al progetto Racing Team. Un progetto dove personaggi iconici del loro mondo, e amanti delle due ruote, guidano le moto in competizioni di amatori. È iniziata così la mia avventura alla Gibraltar Race».
Missoni partecipa così alla gara organizzata da Moto Raid Experience: da Atene a Gibilterra in due settimane. Il 28 maggio il via è sotto il Partenone, l’11 giugno l’arrivo, dopo essere passati da Grecia, Fyrom, Albania, Montenegro, Bosnia, Croazia, Slovenia, Austria, Italia, Francia, Andorra, Spagna, Portogallo. «La Dainese mi ha fornito la sua migliore tuta, e assieme abbiamo deciso di fargli degli inserti con il nostro tessuto, il tessuto Missoni. Solo, che vedendo la moto, ci siamo detti: “Perché non le cambiamo la livrea con il nostro stampo?” Così è nato il mezzo per la gara».
Una gara lunga novemila chilometri, da un capo all’altro d’Europa. Passando per posti dove non esiste nulla, ai confini della civiltà, ad altri che sono il centro del mondo. Posti che sanno di vita, la stessa che passa, come polvere, da sotto il casco e gli occhialini. Che si insinua in ogni angolo della tuta, tra le cuciture dei guanti, e che alla fine ti arriva fin sotto il petto, fino all’anima.
«Ho visto cose che non avrei mai visto se non fossi stato su quella sella. Ho visto gli altipiani del Montenegro e quelli della Macedonia. Dove sei tu, da solo, a lottare contro il mondo. E il deserto dei Monegros, dove puoi perdere tutto; dove pure io mi sono perso».
E le persone. Quelle che in un modo o nell’altro fanno parte del tuo viaggio, che sia una gara o la vita: «Ricordo i bambini dell’Albania,
il loro entusiasmo, i loro sorrisi. A correre dietro le nostre moto e a chiederci di impennare. Poi ricordo di una signora anziana, che viveva da sola in Montenegro, su una montagna. Arrivati lì dopo una prova speciale, al tramonto, ci ha visti e chi ha offerto da bere un liquore che fa lei. Noi, abbiamo cacciato fuori i cellulari per fare una foto, e lei era stranita: non aveva mai visto, nella sua vita, un cellulare per fare le foto».
I momenti belli, ma anche quelli brutti, quelli dove tutto sembra essere perso, svanito via in un soffio dal motore: «In Italia, sul Po, mi si è rotto il motore. Sotto una pioggia tremenda, ho sentito un botto e poi ho visto una nuvola di fumo bianco uscire dalla moto. Era la frizione. Alla fine abbiamo trovato, lungo la strada, una concessionaria Ducati dove abbiamo recuperato il pezzo. E, di notte, a Genova, il meccanico della gara, con solo una torcia da speleologo in testa, sul cassone del nostro pick up, l’ha messa a posto. Ero primo, fino ad allora, dopo quella disavventura mi sono ritrovato settimo. Pensavo fosse finita la mia gara».
«Ho corso. Ho corso più veloce che potevo, finché nel deserto dei Monegros, dopo aver sbagliato strada, sono andato dritto in una curva. Ho stortato la moto, e mi sono stortato pure io. Poi, alla fine, sono arrivato sul podio: 4° in classifica generale, e 2° nella mia categoria. Ora penso che sia grazie a mio padre se sono salito su quella sella. Se ho corso quella gara. Lui mi ha insegnato ad andare in moto, mi ha trasmesso questa passione. Credo che se fosse qui, ora, da motociclista, sarebbe fiero di me».