“Dalla mia casa di Castronno è nato il nostro Evans in giallo”

CASTRONNO Ecco un’altra di quelle storie che solo il ciclismo è capace di raccontare, personaggi che sembrano usciti da un romanzo di Guareschi e che rendono umana anche la figura di Cadel Evans vestito di giallo sul podio di Parigi. Pietro Scampini di mestiere fa lo scultore (suo il ciclista stilizzato che accoglie i visitatori ai Giardini Estensi, opera che è la più fotografata di Varese), vive a Castronno e ieri era una delle persone più

felici del mondo: davanti agli occhi aveva le lacrime di Evans seduto in cima al Tour, e intanto il cuore gli batteva in gola richiamando immagini di qualche anno fa.
Perché Pietro Scampini è stato l’uomo che ha ospitato il vincitore dell’ultimo Tour nella sua casa di Castronno, quando Evans aveva firmato per la Mapei e la sua nuova squadra aveva bisogno di un posto dove parcheggiarlo per qualche giorno. «Eravamo nel 2001 – ricorda Scampini – ed Enzo Verzelletti che allora faceva il massaggiatore alla Mapei mi chiamò per chiedermi se potevo ospitare un loro corridore per una settimana: c’erano in programma tre corse ravvicinate, io abitavo vicino alla Malpensa quindi era il posto ideale. Dissi di sì».
Poi?
Arrivò questo ragazzone, serio ed educato, che a casa mia si trovò subito benissimo. Dopo quella settimana passata insieme, lui si legò moltissimo a me e iniziò a venirmi a trovare tutte le volte che passava da queste parti. La mia casa diventò la sua base, e lui un membro della mia famiglia.
Chi era il Cadel che ha bussato a casa sua?
Esattamente quello che la gente ha poi conosciuto: non è cambiato di una virgola, e questa è la sua forza. Ora è sul tetto del mondo e guadagna un sacco di soldi, ma io ogni volta che lo vedo trovo il ragazzo schivo e riservato che avevo conosciuto dieci anni fa.
Vi siete già sentiti, dopo la vittoria?
No, io non lo chiamo perché avrà un sacco di gente che gli starà rompendo l’anima. E poi perché so che tra qualche giorno arriverà a casa mia, per farsi una di quelle mangiate che lui ama così tanto.
Buona forchetta?
Un buongustaio: dall’Italia ha preso tante cose, ma soprattutto ha imparato a mangiare e bere bene. Insomma, non è il classico anglosassone che insieme alla bistecca vuole il cappuccino, anzi: lui con la carne si beve l’Amarone. Ne capisce.
Chi è per lei, oggi, Cadel Evans?
In una parola: un insospettabile. E parlo del doping, ma anche della serietà che mette nei suoi allenamenti e nella preparazione. Quando qualche giornalista gli chiede un parere sul problema del doping, lui risponde sempre: «E io che ne so? Chiedetelo agli altri». In questa risposta c’è tutto Cadel, uno che non ha mai parlato male di un collega, nemmeno di quelli che gli sono finiti davanti al Tour o alla Vuelta per qualche secondo e poi, chissà perché, sono scomparsi.
Chi lo frequenta parla di un uomo schivo e difficile. E’ vero?
Cadel arriva da una famiglia povera, è cresciuto da solo in mezzo ai boschi da qualche parte in Australia: è normale che sia venuto su un po’ selvatico. E’ il suo carattere, ma quello che gli altri chiamano antipatia, io chiamo umiltà e serietà: Cadel non è uno che se la tira, ecco.
E’ vero che è stato lei a fargli conoscere la moglie Chiara, gallaratese?
Lui viveva con me, e quando era libero dagli allenamenti io me lo portavo dietro: al supermercato, da qualche amico, in giro. Un pomeriggio andai da un modellista che doveva farmi un lavoro per una mia scultura, e con me c’era Cadel: nello studio del modellista c’era anche la figlia. E a Cadel dev’essere piaciuta subito: si sono visti, si sono amati, si sono sposati.
Francesco Caielli

s.bartolini

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