Adesso, però, basta. È vero: prima la Costa Rica, poi l’Uruguay con due sonori ceffoni ci hanno risvegliato dal sogno. Ma non è il caso di cambiare canale e infilarsi in un nuovo incubo. C’è spazio, si spera, per un filo di buon senso.
Proprio quello che è mancato ai manipoli di cantori, soprattutto televisivi, che al triplice fischio di Italia-Inghilterra hanno pensato di essere sulla soglia di una nuova cavalcata Mundial, dimenticandosi delle peste e corna che avevano detto della squadra azzurra durante la marcia di avvicinamento al Brasile. L’Inghilterra (1 punto in tre partite) era la squadra più scarsa del girone. Noi (3 punti in tre partite) i vice-scarsi. Abbiamo solo pagata cara un’illusione.
Ora che gli azzurri sono tornati mestamente a casa, accolti dall’indifferenza generale, forse la smetteranno anche quei sociologi d’accatto che si sono impancati a grandi conoscitori dei misteri del mondo per spiegarci che esiste un rapporto tra il Pil e il tiro in porta, che il malinconico trotterellare di Pirlo & C. era l’esatta fotografia degli stenti dell’Italia a tirare la fine del mese, che un Paese in apnea non può avere il fiato per far correre i suoi undici eroi in mutande.
Un’occhiata all’albo d’oro dei Mondiali potrebbe suggerire maggiore prudenza nei giudizi. E anche una sbirciatina alle classifiche del torneo verdeoro.La Spagna magari non sarà il Bengodi europeo, ma l’Inghilterra non se la passa poi tanto male: perché anche i leoni di sua maestà sono tornati al di qua dell’Oceano con le pive nel sacco? E con l’emaciata Grecia che passa il turno come la mettiamo?
«La palla è rotonda», dicevano i mister quando ancora si chiamavano allenatori e faticavano a mettere insieme un discorso articolato davanti a taccuini e microfoni. La scontata massima, oltre all’evidenza geometrica, mette in luce l’imprevedibilità del calcio. Che piace proprio perché è capace di sgambettare ogni pronostico, di far fare le valigie alle due squadre finaliste degli ultimi Europei, giocati due anni fa, mica nel secolo scorso. Allora perché tirare in ballo teorie filosofiche, ipotesi comportamentali, dottrine sociali per giustificare una vittoria e due sconfitte? Se il calcio italiano fosse in questo momento a grandi livelli, per quale motivo le nostre squadre di club si sciolgono sotto i riflettori dei tornei europei? E, soprattutto, perché in campo ci vanno frotte di stranieri? E non solo in serie A, dove il campione esotico fa cassetta e assicura pingui contratti con gli sponsor. Anche le squadre giovanili sono diventate delle multinazionali del gol.
Se poi le colpe siano più di Prandelli o dei suoi trottatori azzurri, è discorso da bar che finisce con l’arrivo del bianchino spruzzato. Farne questione nazionale è operazione che tracima in commedia.
Il nocciolo del problema è molto semplice: l’Italia non è capace di tirare in porta. E se non lo fai, le possibilità di vittoria sono infinitesimali. Tutto qui, con buona pace di prefiche, intonatori pentiti di peana e sociologi da telecamera con svista. Che chissà per quanto continueranno ancora ad accalorarsi sul ruolo di Super Mario in questo game over. Questioni tecniche a parte, fra Balotelli («I negri non mi avrebbero mai scaricato») e Bettinelli, l’allenatore del Varese, («Credo ai rapporti umani, alla riappropriazione delle risorse del nostro territorio») non bisognerebbe avere dubbi e schierarsi decisamente con il secondo. Che delle radici fa una bandiera, non un’arma di ricatto.
Marco Dal Fior
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