I biglietti spuntavano da sotto il piatto, sulla tavola imbandita per il sacro pranzo della domenica. Quei foglietti di carta dal colore indefinito e affascinante erano il regalo più bello e sperato, quella frase del papà – «Stasera andiamo a vedere la pallacanestro» – la conferma che stava accadendo davvero.
Avevo sette anni (stagione 1984/1985, partita Ciao Crem Varese contro Bancoroma Roma) e in casa si stava perpetuando quel sacro rito, una sorte di “educazione varesina” che imponeva l’obbligo per ogni padre di insegnare ai figli che cosa fosse il basket a Masnago.
Quella prima volta fu emozione, amore a prima vista, paura, rumore, incredulità. Quella prima volta fu l’inizio di una storia destinata a non finire mai e a quella prima volta sarebbero seguite altre domeniche. Sarebbero seguite partite perse, la DiVarese e il tributo di lacrime per ogni sua sconfitta, soldi spesi, notti insonni, viaggi in pullman, fidanzate snobbate, delusioni, l’11 maggio 1999, una malattia divenuta ragione di vita e poi lavoro.
Tra due giorni sarà la prima volta a Masnago, per qualcuno. Queste righe sono per quel bambino che sta per conoscere l’unico luogo in cui, per un paio d’ore a settimana, gli sarà consentito di non crescere mai.