«Maynor? L’ho visto allenarsi, ci ho parlato, sta bene. E ha un ricordo molto positivo di Varese. La sua situazione è da valutare, ma con lui mi sono permesso di sottolineare una cosa: da noi verrebbe gestito alla grande».
Ci sono le curiosità, quelle da cui pendono le bocche dei tifosi, nella congiuntura attuale affamate di nomi, di conferme, di colpi, di notizie. E poi c’è il racconto, altrettanto importante perchè è dalla vita vissuta che nascono le opportunità, perchè dietro un fatto c’è sempre un’emozione, c’è una riflessione, c’è anche – magari – una prima volta.
Oggi vi narriamo quella di Max Ferraiuolo nella Città delle Luci, terra promessa dell’estate di centinaia di addetti ai lavori se declinata allo sport più bello del mondo. Il team manager biancorosso è tornato ieri da Las Vegas, dove per diversi giorni ha assistito alla Summer League 2016, showroom targato Nba ai tempi della canicola, incubatrice variegata di sogni, fallimenti, seconde opportunità: «Un’esperienza bella ma molto impegnativa. Una full immersion di pallacanestro dai ritmi frenetici, che richiede un ambientamento non facile per via del ritmo e degli orari ma dalla quale ricavi tante impressioni interessanti e molto valide. In primis sulla differenze che sussistono tra il nostro mondo e il loro».
L’elenco è lungo: «L’organizzazione di alto livello e le strutture soprattutto – racconta Max – Per giorni la nostra casa è stato il Thomas Mack Center, un’arena di 19mila posti che al suo interno ha un’altra palestra che ne contiene 2000 e tanti luoghi dove ti incontri con gli agenti tra una partita e l’altra». Già, le partite, incastonate in un calendario che definire bulimico è poco: «Iniziano all’una del pomeriggio e finiscono alle 22, ne ho viste almeno quattro ogni pomeriggio. Poi ci sono i workout e gli altri tornei collaterali: insomma, sei in pista dal mattino presto e quando arrivi in albergo alla sera non hai quasi più la forza di sistemare gli appunti che hai preso».
Questa indigestione fatta di attimi da valutare, di strette di mano, di occhi che si muovono, di chance che si giocano e di desideri che si incrociano lascia una scia che proviamo a sintetizzare così».
«Non è difficile capire che la priorità di tutti gli atleti che si presentano a Las Vegas sia quella di cercare un contratto nella Nba – spiega la bandiera varesina – Non si tratta solo di un’evidente questione di opportunità: confrontandoti con loro hai la possibilità di comprendere ciò che passa nella testa di questi ragazzi, di percepire le difficoltà di ambientamento in un altro universo come quello della pallacanestro europea. Chi me lo fa fare?»
si chiedono all’inizio. C’è poi l’ovvia questione economica (il potere contrattuale dalla nostra parte dell’oceano è ai minimi storici) e il fatto che il basket italiano – in questo momento – non gode certo delle migliori considerazioni, complice l’esclusione della nazionale dalle Olimpiadi di Rio e la guerra tra Eca e Fiba. Non è facile, a consuntivo, convincere i giocatori interessanti».
Dato per assodato ciò, l’agenda dell’emissario biancorosso non è tornata vuota: «Ho seguito in particolare i profili che mi sono stati indicati da Paolo Moretti e Claudio Coldebella, sfruttando l’occasione di studiarli da vicino e di capire come si comportano non solo sul campo, ma anche fuori da esso, con i compagni e con gli allenatori. Qualche idea c’è, ma non sarà facile portarla a compimento: vedremo».
Torniamo al principio e a quell’oggetto del desiderio che racchiude in 191 centimetri ardimenti di tecnica sopraffina e leadership, annacquati da preoccupazioni su ginocchia martoriate dagli infortuni: «Ho incontrato Maynor ad un allenamento in un high school a mezz’ora da Las Vegas – conclude Ferraiuolo – Mi sembra in forma, ma quella che lo riguarda è una situazione da valutare. Noi abbiamo il vantaggio di conoscerlo bene: due anni fa lo abbiamo rimesso in piedi da condizioni fisiche e atletiche pessime, con gran merito del nostro staff tecnico e medico. Gliel’ho ricordato quando ci siamo parlati».