Quel giorno, don Renzo Scapolo mi accolse nel suo studiolo: aveva una granata inesplosa appoggiata sulla scrivania, la stanza piena di libri, la voglia di parlare con quel giovanissimo cronistello spaventato che era arrivato a Sarajevo portato da un camion della Caritas e spinto dalla curiosità, con una valigia di sogni.
La guerra in Bosnia era finita da qualche anno, ma era ancora lì da vedere e da toccare: una città distrutta, militari e carri armati per le strade, qualche sparo in lontananza. Don Renzo stava lì, a costruire ponti e speranze dove la speranza era stata trucidata. Sarajevo sanguinava e lui, con la sua associazione “Sprofondo” aveva realizzato il suo miracolo.
Tanti viaggi seguirono, a Sarajevo: capaci di mettermi faccia a faccia con la morte, con la storia di un mio coetaneo che in guerra era stato uno sniper, con gli occhi neri di quella ragazza bruna troppo bella per essere vera. Lì, ad aspettarmi, c’era sempre lui: don Renzo. Che un giorno disse, in dialetto, una cosa del tipo “Te set propi brav a scrivv” e probabilmente in quel momento decisi che avrei davvero fatto il giornalista per continuare a raccontare quelle storie. Ieri don Renzo se n’è andato: e con lui se n’è andato un pezzo della mia gioventù. Ciao don, e grazie.