Si dice che nella vita c’è sempre da imparare. Si dice che, in determinate circostanze, non ci sono parole per spiegare quello che si prova. Se ne dicono, di cose. Se ne dicono talmente tante e talmente in tanti momenti che spesso il silenzio è un bene prezioso da invocare. Ma ci sono professioni, come quella del giornalista, in cui le parole sono lo strumento con cui misurarsi ogni giorno. L’attrezzo del mestiere, appunto. Ma ci sono anche situazioni e momenti in cui,
davvero, anche la favella più sciolta, anche la penna più affilata, anche le dita più veloci e scorrevoli, si bloccano. E vorrebbero soltanto far sì che il mondo intero potesse ammirare in silenzio, e in raccoglimento, la potenza dirompente dei fatti. Fatti capaci di ridurre in cenere anche le più poetiche e inebrianti parole. E allora non resta che mettersi di impegno, fare un respiro profondo, affidarsi alla semplicità e cercare di essere solo umili voci che descrivono quello che vedono (che poi, in fondo, è quello che dovremmo fare sempre. Tutti. Giornalisti e non). Non è giusto morire a 18 anni. Non è giusto morire a 47 mentre stai regalando un sorriso a tuo figlio di 15. Non è giusto morire in un giorno di festa, perché quel giorno ripiomberà puntuale e insidioso per tutta la vita in chi resta, e li costringerà ad essere spettatori infastiditi di un mondo che ogni 365 giorni andrà avanti uguale per la sua strada mentre loro no. Per loro ogni Natale, ogni Santo Stefano saranno giorni maledetti. Irrimediabilmente incancellabili nella loro bastarda crudeltà Ma c’è qualcosa che le famiglie Giani e Nerva in questo momento non possono realizzare ma che resterà per sempre impresso a chiunque si sia imbattuto nelle loro drammatiche storie: quello che ci stanno insegnando. La compostezza. Il coraggio. La presa di coscienza dignitosa, tenace e lucida di un dolore che non è la fine di tutto, ma piuttosto l’inizio di qualcosa d’altro, di completamente diverso da quello che è stato fino ad ora. Ogni madre che prova ad immedesimarsi in mamma Daniela, ogni moglie che cerca di sondare nel cuore della signora Rosanna, non può che allargare le braccia. E interrogarsi. E riscoprirsi piccola e impotente di fronte a queste due donne che, con la morte dentro e tutto attorno, devono comunque trovare la forza. E darla anche agli altri. Alle figlie Serena e Michela, che sono ancora qui e avranno ancora più bisogno di loro. A nonna Irma, che piange lei pure un figlio. A chi ha visto morire un amico ed è troppo giovane o fragile per capirlo, e soprattutto accettarlo. Sarebbe troppo facile dire che siamo tutti mamma Daniela e mamma Rosanna. No, noi non possiamo essere loro. Nessuno di noi può esserlo. Possiamo però chiedere una cosa a noi stessi. E cioè che queste due tragedie, capitate in questo periodo così particolare e spensierato per definizione, ci insegnino qualcosa. Ad andare oltre la rabbia per generare speranza, ad esempio. A non incancrenirsi alla ricerca dei colpevoli (ammesso che esistano) ma piuttosto concentrarsi sull’ora e adesso, su quel che il presente ci sta chiedendo di fare. Passeranno queste feste, passeranno questi giorni. Matteo tornerà a casa dall’ospedale, diverse persone potranno continuare a vivere grazie agli organi giovani e forti di Alessandro. Cosa resterà? L’esempio. Una parola, in fondo. Ma una di quelle capaci, grazie la sua potenza fatta di gesti concreti e silenziosi, di far tremare il mondo. E renderlo, senza dubbio, un posto migliore.