«Questo è il meglio per me. Mi è mancato un affetto che mi riempisse la vita. I miei bambini non mi bastano più. Non piangete perché io sono in pace».
Queste le parole, tragiche e ultime, di Antonia Pozzi, una delle poetesse più significative del Novecento, scritte il 2 dicembre 1938, poco prima della sua morte. Per ultimi l’hanno vista i suoi “bambini”, i suoi allievi dell’istituto Tecnico Schiapparelli, di cui era insegnante.
Antonia Pozzi, nata a Milano nel 1912, viene ritrovata nel prato antistante l’abbazia di Chiaravalle. Aveva assegnato una versione di latino, si era allontanata dalla classe. «Non è già più autunno in quel 3 dicembre 1938, ma inverno livido, da cui non trova scampo – scrive la biografa Alessandra Cenni in “Lieve offerta. Poesie e prose”, Bietti – La prendono tra le braccia, per tirarla fuori dal fosso, che non pesa quasi nulla. Febbricitante e irrigidita per le pastiglie che ha ingerito e più ancora per il freddo preso in quella notte all’addiaccio e che le ha provocato una polmonite acuta. Quel corpo inerme che viene condotto di corsa e invano all’ospedale, avvolto in una coperta che è già un sudario, testimonia una passione disperata e imperdonabile per la vita stessa».
Nella borsetta custodisce una poesia dell’amico Vittorio Sereni, “Diana” e l’appunto, a matita, drammatico: «Addio Vittorio, caro – mio fratello. Ti ricorderai di me insieme con Maria». Nel 1935 Antonia Pozzi si era laureata in Estetica alla Regia Università di Milano, con il filosofo Antonio Banfi e aveva stretto amicizia con i più importanti intellettuali del suo tempo; oltre al luinese Sereni, Remo Cantoni, Enzo Paci, Dino Formaggio.
Il suo isolamento artistico insieme alla sua solitudine affettiva, dopo la sofferta rinuncia all’unione con l’amatissimo professore di liceo, Antonio Maria Cervi, la dolorosa scelta di togliersi la vita, che la consacra giovanissima e altissima voce della poesia femminile novecentesca. La sua grafia semplice e nitida emerge dai cassetti segreti della poetessa, iniziando a percorrere il cammino verso i suoi lettori. La mano “carducciana” del padre di Antonia, un severo avvocato Roberto originario di Laveno, interviene sui componimenti della figlia, li taglia, li censura, tragicamente.
«Pagine vengono strappate; si usano forbici e colla per annullarne la traccia; alcuni testi vengono ricopiati, altri non vedranno più la luce, distrutti come il suo testamento», registra Alessandra Cenni. Da Pasturo, dove ha vissuto e oggi è sepolta, il 13 agosto 1935, Antonia scrisse all’amico Sereni: «Io non ho più scritto nessuna poesia. Mi convinco sempre più dell’incompatibilità di poesia e vita, come è in Tonio Kröger. Io sono adesso come Tonio Kröger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole. Forse – chissà – l’età delle parole è finita per sempre», «un’anima troppa fragile per reggere al peso della vita», secondo la celebre definizione di Eugenio Montale.
La vita della poetessa fragile si è allacciata per brevi momenti alla provincia di Varese – il fondo “Antonia Pozzi” è stato donato dalla Congregazione di Suore del Preziosissimo Sangue al Centro Internazionale Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti”, curato da Fabio Minazzi, presso l’Insubria -, dove la nonna aveva dimora, presso la villa dei Morlin Visconti, di proprietà dello zio Oscar a Carnisio, una località di Cocquio Trevisago. Scrisse infatti all’amato professor Anton Maria Cervi: «A Carnisio ho tanto studiato: con calma, senza affanno. Sono contenta. Sono anche abbastanza buona. È terribile essere una donna, ed avere diciassette anni!».