È una lezione da imparare. Un mese fa io l’avevo detto

L’editoriale di Andrea Aliverti

Donald Trump, com’era scritto nel destino. Non voglio fare lo “sborone”, ma quando un mese fa a Busto Arsizio il vicedirettore del “Post” Francesco Costa, una delle più brillanti penne che hanno seguito la campagna presidenziale americana, chiese al termine di un affollato incontro in birreria, chi avrebbe “votato” per una vittoria di Donald Trump, dalla platea si alzarono solo due mani, ed una era del sottoscritto.

Pur rischiando di finire accomunato con gli appassionati dello sport più in voga del “day after” delle elezioni è quello di accomodarsi sul carro del vincitore, posso dire senza remore che “io l’avevo detto”. Sarà perché Hillary Clinton ha commesso lo stesso errore di un D’Alema o di un Bersani qualsiasi, quando erano alle prese con il Trump di casa nostra, Silvio Berlusconi, facendo campagna elettorale quasi esclusivamente in funzione “contro” e senza saper proporre un’idea forte di America che non fosse la fotocopia di quella, ormai un po’ sbiadita, lasciata in eredità da Barack Obama.

Sarà perché Donald Trump, senza dover offrire concerti gratuiti di Jennifer Lopez o Katy Perry, riusciva a smuovere folle oceaniche di americani che facevano code chilometriche per venirlo a sentire ai suoi comizi, e questo qualcosa doveva pur significare.

Sarà perché, avendo avuto la fortuna di trascorrere un breve periodo della mia vita negli Stati Uniti proprio nel pieno di una campagna elettorale, quella della sfida tra George Bush jr. e John Kerry, per certi versi simile a questa, ho rivisto nell’apparentemente “impresentabile” (ai nostri occhi europei) Trump, così poco preparato ai dibattiti e così avvezzo a spararle grosse, il ritratto dell’America vera e profonda, quella che è non è New York né la California, quella che si rispecchia nel burbero e ruvido Clint Eastwood molto più che nell’aristocratico George Clooney, quella che tiene il fucile in casa per difendersi dai ladri e che sta a prescindere dalla parte dei poliziotti e dei veterani, quella che malsopporta l’invadenza dell’I.R.S. (l’omologo della nostra Agenzia delle Entrate) e non fa una colpa a Trump se non rilascia pubblicamente la sua dichiarazione dei redditi.

Ma spiegare con questi argomenti forse un po’ ritriti il trionfo del tycoon newyorkese rischia di dare a sua volta una visione distorta dell’America. Perché è vero che l’America è quella incarnata da Rick Harrison, il pittoresco “robivecchi” di Las Vegas dello show televisivo “Affari di Famiglia”, convinto sostenitore di Trump, ma l’America è anche quella che, nello stesso giorno in cui ha incoronato Trump, ha stoppato la rielezione di Joe Arpaio, lo sceriffo italoamericano della contea di Phoenix,

Arizona (una delle poche grandi aree urbane che nella mappa elettorale si sono colorate di “rosso” Repubblicano), accusato dai federali di profilazione razziale degli immigrati, una vera icona per i conservatori e per lo stesso Trump. È quell’America all’avanguardia sui temi dei diritti civili e dell’integrazione che otto anni fa ha portato alla Casa Bianca il primo presidente di colore della storia. Sono due Americhe, che ad ogni tornata presidenziale sembrano tagliare con l’accetta pezzi di Paese così distanti tra di loro – la campagna e la città, gli Stati sulle coste e quelli interni, la cintura industriale (la “Rust Belt”) e il New England – ma che in realtà sono alle due estremità di una fune che viene tirata una volta di qua e una di là. Una sola America, che grazie al principio di alternanza della democrazia più bella del mondo è sempre capace di guardare avanti. Cerchiamo di imparare almeno questa lezione. n