Si tratta di un’esigenza. Di un’emergenza che fa sentire le sue sirene da un capo all’altro del mondo occidentale, manifestando un’urgenza cui nessuno può sottrarsi. Ma si tratta anche di una speranza, dura a morire anche davanti agli occhi che piangono disgrazie e al vaneggiante pensiero di risposte che chiamano la stessa violenza delle domande che le scaturiscono.
L’integrazione è il nuovo traguardo dell’Europa nella sua complessità, meta agognata nell’epoca delle migrazioni, del multiculturalismo affaticato dai terrorismi.
Un “problema” che nemmeno i piccoli centri come Varese possono snobbare e non affrontare. La nostra provincia sta facendo i conti con l’accoglienza di 1500 migranti e il capoluogo che la guida – Varese – ha deciso di guardare l’altra faccia della luna dopo anni di dura opposizione sul tema ispirata dal leghismo.
L’arma dell’integrazione in salsa varesina (e di altre, virtuose e vicine amministrazioni prima di lei) sarà quella del lavoro: le nostre pagine di oggi ospitano la spiegazione di un progetto che mira ad inserire i richiedenti asilo in ambito lavorativo, con la qualifica di volontari, per fare sì che essi ripaghino in modo utile alla comunità l’ospitalità ricevuta.
Quel lavoro che per definizione nobilita la nostra esistenza su questa terra, quel lavoro che ci permette di emergere da una vita senza motivazioni e senza senso è la scommessa estrema (l’unica intelligente, perchè non prevede nè muri, né – dall’altra parte – pericolosa, indiscriminata carità fine a se stessa) per vincere un domani vivibile nella cangiante società attuale.