È proprio vero che chi sa accontentarsi di ciò che ha vive più che felicemente. Mancano ormai poco più di due settimane all’Expo e invece di prepararsi ad accogliere il mondo in Italia, invece di rimanere affascinati dal movimento di turismo che investirà Milano, alcuni evidenziano sempre di più i ritardi di costruzione dei padiglioni (tra cui anche quello italiano). Si scatenano le solite polemiche di impreparazione globale, escono le classiche frasi fatte del tipo «Noi
arriviamo sempre dopo», oppure «Chissà che figuraccia», ecc. Ma non siamo gli unici ad arrivare in ritardo e non lo siamo sempre stati, e questo non lo dico perché «mal comune è mezzo gaudio», ma perché un’Esposizione Universale non si ferma solo alla realizzazione di padiglioni o di varie installazioni artistico-tecnologiche. Ci furono ritardi per la costruzione del Crystal Palace nel 1851 a Londra, non mancarono i problemi neppure a monsieur Gustave Eiffel per realizzare la sua torre che impiegò 2 mesi e 5 giorni in più nel previsto, pure essendo stata eretta prima dell’Expo parigino del 1900. Come dimenticare poi l’inaugurazione newyorkese del 1964, quando gli ingegneri dovevano ancora terminare numerosi controlli dei loro padiglioni espositivi?
Matteo Resemini
Ad ammettere ritardi e difficoltà è chi li avrebbe dovuti evitare. C’era tutto il tempo per non perderlo dannosamente: ma tirarla per le lunghe è scelta tipica dell’italianismo. Quando si stila un programma, bisogna esservi ligi: è una questione di serietà verso i cittadini dalle cui tasche si prendono i soldi per finanziare le opere. Detto questo, pensiamo ottimistico, sperando che l’Expo sia un successo. Il vantaggio andrà a tutti.
Max Lodi