«Non ho mai cercato la vendetta, chi mi ha cresciuta non mi ha insegnato questo. Nella vita bisogna solo amare, niente rancori o odi: solo così si va avanti e non ci si distrugge».
La storia di Lilli Pesaro è una lezione di coraggio e di vita. La sua è la storia di una piccola bambina di origine ebraica che si nascondeva sotto il letto insieme al suo amico Leopoldo per sfuggire alle ispezioni tedesche. Per sfuggire alla deportazione in un campo di concentramento. Per sopravvivere.
Lilli ha aperto con noi il cassetto della memoria, ci ha presi per mano e ci ha fatto rivivere la più grande tragedia nella storia dell’umanità. Le sue parole rimangono indelebili nell’animo. Gallaratese d’adozione, Lilli racconta dei rastrellamenti, dei nascondigli, delle urla in braccio ad un soldato tedesco, degli incontri segreti con la mamma nel bagno dell’ospedale, e lo fa senza rabbia: nella sua voce domina la speranza e la fiducia che l’uomo «mai più arriverà a livelli così bassi». Questa storia non è da dimenticare. Questa incredibile, terrificante storia bisogna ricordarla. Ecco perché vogliamo raccontarvela.
Lilli Pesaro nacque a Marsiglia, Francia, nel 1938. Mamma Anita era cattolica, papà Canzio, invece, era ebreo. Tra il ’38 e il ’43, in Italia, il Regime diede applicazioni pratiche e più severe alle leggi razziali con ispezioni, rastrellamenti e deportazioni e Lilli, con papà Canzio e mamma Anita, fuggì da Milano, dove avevano trovato sistemazione, a Genova. «Qui la famiglia Avalle, rischiando la propria vita, mi ospitò nella propria casa insieme ad altre undici persone. Nella loro casa c’eravamo solo io, i miei zii, i miei cugini e mio nonno: mamma e papà, purtroppo, non poterono stare con noi».
Lilli visse due anni a casa Avalle. Qui, ricorda Lilli,«sognavo di essere una bambina felice, come tutti gli altri». I sogni di un’adolescente correvano liberi e veloci ma dovevano fare i conti con la dura realtà. Anche a casa Avalle le ispezioni erano all’ordine del giorno: momenti surreali, terrificanti. «Quando i soldati tedeschi entravano in casa, mio zio raccomandava alla signora Alba Avalle di buttare dell’acqua sporca sulla stufa in modo da fare fumo: io e Leopoldo, loro figlio, ci nascondevano sotto il letto e ci davamo la mano per farci forza». A volte, invece, Lilli era costretta a scappare nei campi, nei fienili. Gli stratagemmi della famiglia Avalle funzionarono per i quasi due anni in cui Lilli visse nascosta a Genova.
Nel ’44 Canzio fu arrestato e deportato ad Auschwitz, Anita invece, molto malata, fu trasferita in un ospedale. «Un giorno feci finta di andare a trovare un’altra persona e mi incontrai di nascosto con mia madre: ci abbracciamo, in silenzio, in un bagno».
Lilli e Anita aspettarono a lungo che Canzio tornasse ma nessuna notizia le raggiunse. Solo alla fine del 1944 un giovane italiano di origine polacca, Sturm Jacob, portò loro parole che mai avrebbero voluto sentire. «Era giovanissimo, aveva 23 anni, e ci portò tutti i documenti e il numero di matricola di mio padre. Ci raccontò che i due si erano conosciuti ad Auschwitz e che si erano fatti una promessa: chi fosse sopravvissuto, avrebbe portato notizie dell’altro
alla famiglia. E così fece. Mantenne la sua promessa». La follia dell’uomo aveva portato via ad Anita l’amore della sua vita: alla piccola Lilli, invece, aveva portato via il suo papà. «Per molto tempo non ho mai fatto domande. Di mio padre non ricordo nulla. Non un bacio, un castigo, una carezza: questa è la cosa più tragica. Me lo hanno portato via, ma ero molto piccola e non capivo: per anni ho messo in dubbio che mio padre mi avesse davvero voluto».
Per molto tempo Lilli nascose la sua storia in un cassetto, sotto la polvere e il silenzio. Solo recentemente ha deciso di tirarla fuori, di riviverla e di raccontare di lei, di Anita e di Canzio e del nascondiglio sotto al letto con Leopoldo. «Nel 2000 andai a visitare Auschwitz: dovevo trovare la mia identità. Quando entrai, dissi per la prima volta una preghiera a mio padre. E per la prima volta lo sentii». Fu allora che Lilli trovò il coraggio di aprire quel cassetto. Per se stessa, per sua mamma Anita, per suo papà Canzio, ma anche per tutti noi. Perché «raccontare la mia storia significa trasmettere che ciò che conta, nella vita, è l’amore per gli altri».
Perché al mondo le persone buone esistono. Perché c’è un Giorgio Perlasca nel profondo di ognuno di noi, basta solo cercarlo. «Io queste persone le ho incontrate e si chiamavano Alba e Vincenzo Avalle. Sono state persone straordinarie e meriterebbero il titolo di Giusti fra le Nazioni». E allora gridiamolo, non dimentichiamocelo. Le persone buone esistono.