Ancora un addio. Con mestizia, rimpianto, gratitudine. Dopo Dante Trombetta e Gianni Asti, se ne va Giancarlo Gualco, raggiungendoli nella galleria d’onore del nostro basket: scritta la storia, chi vi è ammesso entra nella leggenda.
Lui porta in dote una miriade di trionfi: scudetti, coppe italiane, europee, mondiali. Nessuno può vantare un simile palmarès, ma Gualco ha sempre finto indifferenza verso la sua personale grandeur: gli piacevano i fari spenti e i toni smorzati, modestia più semplicità. Doti che gli permisero d’evolversi da buon giocatore in super dirigente. A giudicare dai risultati, il migliore ricevuto in sorte da Varese.
Alla città voleva bene come a se stesso: campanilismo d’antan, schietto, genuino, appassionato. Apprezzava lo spirito di bandiera, idem i simboli, e figuriamoci la tradizione. L’omaggio al passato derivava dalla certezza – lo disse una volta al suo eccellente contemporaneo Sergio Marelli – che il presente ha un futuro solo se sa voltarsi indietro, oltre che guardare avanti.
In campo, negli anni Cinquanta, fu ala (all’occorrenza aiuto pivot) di buon rendimento. Conobbe l’epoca del postpionierismo, poi quella della sponsorizzazione Storm, quando la Casa dello Sport di viale XXV Aprile iniziò a diventare un fortino inespugnabile.
Passato alla scrivania, ne prese confidenza a modo suo: rimanendovi seduto qualche volta, preferendo allontanarvisi molte altre. Lo intrigava il contatto diretto con il “milieu” cestistico: vedere di persona, accertarsi, decidere se Tizio era un potenziale campione e Caio una probabile bufala. Formidabili alcuni affari, che determinarono il ciclo glorioso dell’Ignis avviato nel ’68/69 e proseguito per un decennio.
Giovanni Borghi, deluso da una fila di rovesci, affidò il comando al genero, Adalberto Tedeschi, che individuò in Gualco l’adatto rinnovatore. Un colpo azzeccato. Anzi, un capolavoro. Il predestinato scelse Messina come tecnico, prese Raga in Messico, riportò Ossola da Milano a Varese, recuperò Flaborea a Biella, scommise sulla forte fragilità di Rusconi, lanciò il diciottenne Meneghin, inventò una prodigiosa armonia di spogliatoio. Venne subito lo scudetto. E l’anno dopo, affiancata in panchina la scienza di Nikolic all’entusiasmo di Messina, ecco la Coppa Europa, il trionfo di Sarajevo, la nascita della Valanga Gialloblù.
Piovvero elogi come soffice grandine. Viva il presidente, viva l’allenatore, viva i giocatori. Sull’artefice massimo, il general manager forgiatore degl’Invincibili, pochi chicchi invece che moltissimi.
Ma Giancarlo non si adombrò. Né allora né poi. Riservatezza e sobrietà costituirono sempre la cifra del suo impegno professionale, arricchita da uno spirito tollerante, da un gusto sottile per l’ironia, e dall’intuito psicologico che lo portava a spartire con i sottoposti il cameratismo riuscendo a non smarrire l’autorevolezza.
Questo stile di levità in apparenza fanciullesca, e invece di saggia conduzione dei rapporti umani, gli regalò la cordialità dei sodali e il rispetto degli avversari.
Con i quali non ci fu mai accesa discussione senza l’epilogo d’una pacca sulla spalla, portata da Gualco con quell’identificativo mignolo sporgente che – trapassando gl’indumenti – muoveva al sorriso invece d’indurre a una smorfia. Un fuoriclasse della diplomazia, oltre al resto.
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