Fino a qualche mese fa andavano in terza media e adesso, se non si parlasse di un argomento così tragico, in tutti gli altri campi della vita li chiameremmo ancora ragazzini, se non bambini. Il più grande è del 1999, la più piccola del 2001 e hanno solo due “torti”. Quello di trovarsi in una classe della ragioneria varesina metà italiana e metà straniera, con marocchini, albanesi, ghanesi, tunisini e iraniani, dove le differenze – se gestite male –
possono trasformarsi in contrasti. E quello di porsi una domanda giusta («Ma perché il minuto di silenzio non lo facciamo anche per l’attacco jihadista che ha ucciso 147 studenti in un campus del Kenya o per le 224 vittime della bomba dell’Isis sull’Airbus russo?»), dandosi la risposta sbagliata. Questa: «O lo facciamo per tutti o non lo facciamo per nessuno, perché i morti, vicini e lontani, hanno la stessa dignità». Invece avrebbero dovuto dire, spinti esattamente da questa ragione, e dai loro insegnanti: «Iniziamo dalla Francia e sfruttiamo questo silenzio per pensare anche a Nairobi e al resto del mondo». A chi sta indagando sull’episodio non risulta alcun motivo religioso, nessuna divisione tra musulmani e cattolici, italiani e stranieri alla base della mancata partecipazione di alcuni alunni dell’istituto per ragionieri Daverio di Varese al minuto di silenzio per le 129 vittime francesi.
Eppure per qualcuno in una scuola della città sembra annidarsi il retroterra culturale dell’estremismo islamico. Risultato: politici che non guardano in faccia a nessuno cavalcano la scelta errata di alcuni quattordicenni di ogni razza e religione dopo la “notizia” che, nei termini in cui l’ha comunicata persino al prefetto l’assessore comunale Carlo Piatti – «L’uscita dall’aula di sei alunne musulmane» -, è innanzitutto sbagliata nella sostanza (non sono sei, né solo musulmane, e nemmeno tutte straniere), oltreché cinica nella forma, quindi inaccettabile da chi non può non essere sicuro al 100% di ciò che dice su un argomento simile, visti il ruolo che occupa e le conseguenze che possono avere le sue parole. A un ragazzino che sbaglia si parla, perché capisca, non lo si butta in pasto ai leoni. Perché altrimenti continuerà a sbagliare.