Il calcio non ha riconoscenza: basta qualche sconfitta, qualche mugugno, e la più grande impresa mai realizzata finisce con un “grazie, arrivederci” a metà della stagione seguente. Ma il calcio ti dà sempre un’altra possibilità: a patto di volerla e di essere pronto a dare – ancora, come sempre – tutto ciò che hai; ricordando con orgoglio ciò che si è fatto – e quello che ha fatto lui è consegnato alla leggenda di questo meraviglioso sport – ma sapendo rimettersi in gioco, da capo, cogliendo una nuova sfida.
Andrea Azzalin, al fianco di Claudio Ranieri, è ripartito ieri da Nantes (sconfitta 3-0 contro il Lille di Marcelo “el loco” Bielsa: ma questa è un’altra storia…). Proprio in Francia, dove atterrò dopo aver spiccato il volo dalla sua Varese e dal suo Varese 1910, iniziò la sua favola: due stagioni a Monaco – vittoria della Ligue-2 2012/2013, secondo posto e qualificazione in Champions l’anno dopo -, intervallate dall’argento Europeo under 21 in Israele, poi le esperienze (senza fortuna) a Bari e con la Grecia. E, infine, l’incredibile vittoria della Premier League 2015/2016 con il Leicester dei sogni.
Sì, direi di sì. Quanto successo a Leicester credo sia sotto gli occhi di tutti…
La vittoria me la ricordo eccome: una città sconosciuta e una squadra di provincia sul tetto d’Inghilterra. Ma non vivo di ricordi e ritengo inutile pensare troppo a quanto successo dopo: sono già proiettato al futuro. Una cosa mi mancherà, il modo in cui viene vissuto il calcio dai tifosi: lì la partita è una festa, sempre.
Sono contento di essere tornato qui e in questi anni il campionato francese è cresciuto molto: ci sono molte proprietà straniere, arrivano capitali, giocatori, allenatori e staff dall’estero. Quest’estate c’erano contatti con diverse società, anche inglesi. Una mattina il mister mi ha telefonato e mi ha detto: «Andrea, andiamo a Nantes: sono convinto del progetto».
«Mister: se ti piace, io sono pronto». Per noi era importante tornare in gioco, a lavorare sul campo, a fare quello che preferiamo. E bisogna andare nelle società dove veramente ti vogliono e dove si instaura empatia per provare a fare qualcosa di buono.
Una bella città: vivibile, universitaria; mi è piaciuta da subito. Tra centro e periferia fa più di 600.000 persone, a 40 minuti c’è l’oceano. Io vivo nel centro storico, che è un po’ più grande di quello di Varese ma ci assomiglia: è elegante e a misura d’uomo, con tante zone pedonali.
Certo, ho già i miei percorsi… Parto dal centro sportivo, La Joneliere, che è a una decina di minuti dal centro. C’è una pista ciclabile, con tratti anche in sterrato, che costeggia tutta la Loira: ho già convinto e coinvolto alcuni membri dello staff francese a correre con me. Ho anche già trovato qualche posticino… “mio”: tra questi il Le One, quando andiamo siamo sempre coccolati. In generale qui si trova buon pesce e anche carne. E sì: pure buon vino!
La Joneliere assomiglia a Milanello: è immerso nel verde, noi abbiamo tre campi e due palestre a disposizione, poi c’è tutta la parte riservata al settore giovanile. La società è storica e gloriosa, 8 volte campione di Francia, l’ultima volta nel 2001. Quando sono stato al Monaco è tornato insieme a noi in Ligue-1 e da allora ci è sempre rimasto: l’anno scorso il miglior piazzamento, con un settimo posto. Il presidente si chiama Waldemar Kita, è franco polacco e ha affari nel mondo biomedico e della cosmesi. La società ci ha chiesto di fare meglio dell’anno scorso: non sarà facile, ma siamo qui per provarci. Lo stadio, invece, si chiama la Beaujoire, ha poco meno di 40.000 posti e da avversario lo ricordo caldo, come piace a me: la “tribune Loire”, quella che per noi è la curva, non manca mai di farsi sentire… Siamo gialloverdi: ci chiamano “les Canaris”, i canarini.
Il mister ha preso questa sfida con lo spirito che lo contraddistingue: con entusiasmo e umiltà, con la voglia di fare il meglio possibile. Noi, il suo staff, siamo pronti a seguirlo, come sempre: oltre a me, ci sono Paolo Benetti, allenatore in seconda; Carlo Cornacchia, collaboratore tecnico; Paolo Orlandoni, preparatore dei portieri. La squadra è giovane, abbiamo solo tre over 30, e da quello che ho visto fin qui il gruppo è molto unito. Nomi conosciuti? In Italia, ai più, credo solo Tatarusanu, ex portiere della Fiorentina. Ma i nomi non contano, conta solo ciò che metti in campo: questi ragazzi hanno voglia di mettersi in luce. Lo faranno.
Abbiamo trovato il 100% di disponibilità di giocatori e club per impostare la nostra filosofia di lavoro, un mix di tutte le nostre esperienze: rigore tattico e preparazione fisica italiane, programmazione più internazionale, con forte individualizzazione dei carichi di lavoro, in campo e in palestra. Attenzione massima al recupero: se serve, si dà. Da questo punto di vista l’Inghilterra mi ha arricchito: in Italia c’è l’abitudine a pensare che se non ci si allena tutti i giorni, se non si fanno i doppi, la squadra non corre. Non è così: ovviamente bisogna lavorare, ma anche agire sulla testa per capire fatica e necessità di riposo. A fare la differenza sono comunicazione e confronto.
Dal punto di vista sportivo, un giocatore indiscutibile. Da quello economico forse bisognerebbe rivedere qualcosa, anche se mi rendo conto che non si parla più di “prendere un giocatore” e basta, ma di marketing, strategie di mercato ed economiche. Giusto o sbagliato? Mi limito a dire che questo è il calcio: prendere o lasciare. Ripeto, a me interessa il campo: e dal punto di vista tecnico è uno stimolo, perché non c’è niente di più bello che giocare e confrontarsi con i più grandi.
No, nessuno è imbattibile: ancora non l’hai imparato? Certo è difficile. Il nostro obiettivo è far sudare chiunque: a chi sarà più forte, stringeremo la mano. Ma bisogna dimostrare di esserlo.
La prima partita che ho guardato sul calendario! Sono stati i miei primi due anni nel calcio di vertice; due anni importanti, che hanno indirizzato la mia carriera. Ho tutt’ora amici al Monaco, li sento spesso. Sono anche campioni in carica: uno stimolo in più per provare a batterli.
Non c’è nulla di impossibile: Leicester insegna. Quell’impresa rimarrà unica e non possiamo pensare di ripeterla ovunque; e cercare paragoni non sarebbe giusto. Ma dalla linea di partenza si parte tutti insieme: bisogna avere l’obbligo, mentale, di credere di poter arrivare in fondo per primi. E vincere. La differenza la fa la qualità, imprescindibile, ma anche il modo in cui si affrontano le partite, lo spirito, l’intensità, la cattiveria, la voglia: questo determinerà dove arriveremo.
Quando posso, passo a fare visita: casa non si dimentica mai. Diciamo che vigilo sempre: e mi ricordo che l’anno scorso avevo detto che il Varese mi sembrava in buone mani. Dopo tutto quello che è successo, stavolta non mi sbilancio: aspetto di vedere cosa accade. Spero che chi guida la società faccia le cose seriamente: per la città, e soprattutto per i tifosi. Tifosi che vanno ovunque, che hanno e dimostrano un attaccamento straordinario: con loro bisogna sentirsi sempre in dovere. Chi deve dimostrare, lo faccia; i giocatori, certo, ma in primis la società: l’anno scorso chi è stato messo a dura prova è soprattutto chi ha lavorato per il Varese; dubito si possa dire il contrario.
Di cuore, dico peccato. Ma se è stato necessario fare il passo lungo come la gamba, ben venga la Serie D. Da vincere? Questo è fuori discussione…