Ci sono mestieri che visti da fuori sembrano i più belli del mondo.
Valigia sempre pronta, l’agendina zeppa dei numeri di giocatori e procuratori, telefonino bollente, montagne di partite da vedere e rivedere.
Il paradiso di ogni appassionato di basket, la quotidianità dello scout: l’uomo che lavora nell’ombra per tutto l’anno, e che in estate diventa il protagonista nel campionato dei sogni.
La voce di Simone Giofrè arriva lontana, si fatica a capire: roba normale quando si fa una telefonata intercontinentale. Perché il ds biancorosso, l’uomo del mercato di Varese, è a Los Angeles: in aeroporto, pronto a saltare sul volo che lo riporterà in Italia dopo un mese e mezzo passato tra Italia e Usa. Le squadre vincenti si fanno così.
E visto che di notizie sul centro non ce ne sono, ne approfittiamo per farci raccontare da Giofrè i segreti di un lavoro affascinante, che rispetto a una decina d’anni fa ha cambiato faccia.
«Mi occupo direttamente di scouting – racconta – da sette anni, ma la testa dentro questo mestiere ce l’ho da più tempo. E devo ammettere che le cose sono cambiate, e il nostro mestiere è stato rivoluzionato dall’avvento delle tecnologie».
Com’era. «Fino a dieci anni fa il lavoro consisteva sostanzialmente nel mettersi davanti alla televisione per vedersi ore e ore di filmati: pacchi enormi con quantità impossibili di vhs riempivano le stanze e poi le case degli scout, poi con i dvd ha iniziato ad andare meglio perché per lo meno si sono ridotti gli spazi. Tutto era molto più rallentato, i campionati che si riuscivano a coprire erano pochi, ed erano pochissime le società che investivano in persone che facessero questo lavoro: il gm visionava qualche cassetta, e niente più. La chiave vincente, allora, erano le conoscenze: se avevi i contatti giusti che ti mandavano i filmati giusti, allora portavi a casa qualcosa di buono. Altrimenti perdevi del gran tempo».
Com’è. «Con i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione, si arriva dappertutto: e anche campionati come quello cinese o quello israeliano sono vivisezionati. Possiamo permetterci il lusso di scegliere quello che vogliamo vedere e seguire, i contatti con agenti e giocatori sono più semplici e immediati. Poi, di contro, le barriere all’ingresso si sono abbattute ed è aumentata l’improvvisazione: in tanti pensano di poter fare questo mestiere con Facebook e Twitter, credendo che la tecnologia sia la cosa più importante. Invece c’è dell’altro».
Ovvero. «La differenza alla fine sta nella voglia di sbattersi, di girare, di andare a conoscere e toccare con mano. Perché in molti pensano che sia sufficiente vedere un giocatore in video per conoscerlo, e invece è proprio così che si prendono le cantonate. È come quando si vede un film al cinema e se poi per strada si incontra quell’attore non lo si riconosce: perché in video sembrava più alto,
più bello, aveva una parlata diversa. Con i giocatori è la stessa cosa: quando ti interessa qualcuno, lo devi guardare sempre e non solo quando sta in campo. Lo devi guardare quando viene richiamato in panchina, se manda a quel paese l’allenatore o se si alza a incitare i compagni, lo devi guardare in ogni atteggiamento. Dunston, per dirne uno, ci aveva convinto proprio così: alle Summer League non vedeva un pallone, eppure correva e si buttava per terra per prendere ogni pallone. Fossimo rimasti a casa, non l’avremmo preso».
I tifosi di Varese, stiano tranquilli: il centro che arriverà, sarà frutto di un lavoro lungo e importante. «Proveremo a fare il massimo con le risorse che abbiamo e sono certo che alla fine troveremo la nostra dimensione: vedrete».
Varese
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