Il derby: una partita che da sola dice tutto

L’editoriale di Francesco Caielli

Il derby non lo puoi immaginare. Non lo puoi raccontare, e nemmeno chiudere in una pagina di giornale. Il derby non lo puoi prevedere, non lo puoi trattare come qualcosa di normale, non puoi pretendere di capirlo. Il derby va avvicinato, vissuto e ricordato. Varese contro Milano è roba che fa scintille, ultimo residuato che ci fa sentire ancora il profumo di un basket che non c’è più e che ci manca: sfida per nostalgici e cuori forti,

sfida da rispettare come si rispettano le rughe di un uomo anziano che dispensa storie e saggezza. Se il derby contro Cantù è calore e odio tra due città che sono troppo innamorate di basket per volersi bene tra loro, quello con Milano è storia e orgoglio. Questa è la pallacanestro dei nostri nonni, che è passata nelle mani dei nostri padri per arrivare a noi: come uno di quegli oggetti di famiglia che resistono al tempo e si tramandano tra le generazioni. Un vecchio orologio, una catenina, un gioiello. È una partita, certo: ma è una partita iniziata quasi settant’anni fa che non ne vuol sapere di finire. Quindi è una partita ma è anche mille cose insieme, mille cose in più, mille cose oltre: e chi liquida il tutto dicendo che è solo un gioco è un uomo che si perde il meglio della vita.

Varese-Milano, dunque: ognuno ha il suo, e ognuno ha un personalissimo baule chiuso in soffitta dal quale tirare fuori i ricordi evocati dalle storie nascoste in questa sfida. Un biglietto ingiallito e spiegazzato che ricorda code infinite davanti alla Giuliani e Laudi, un numero del Due Punti sopravvissuto indenne a quell’ora e mezza appesi alla balaustra, una vecchia sciarpa biancorossa che da ragazzo era obbligatorio indossare tutti i giorni a scuola come al palazzetto.

Ricordi. Chi c’era ci racconta che una volta il derby si giocava fuori dal campo più che dentro, prima e dopo la partita più che durante, sui giornali e nei bar più che sul parquet. Che si passava un anno intero ad aspettare quelle sfide, perché ci si giocava lo scudetto ma anche perché c’era in ballo qualcosa di più importante. Loro, quelli dell’Olimpia, le Scarpette Rosse del Simmenthal: si consideravano un po’ i nobili della pallacanestro, i sangue blu che guardavano un po’ altezzosi quelli venuti giù dai monti. Ragazzini, operai, casinisti. Battere Milano per la gente di Varese significava tirare su la testa: anche se per un momento, anche se per un’illusione. Erano sfide a chi faceva più canestri ma erano anche baruffe dialettiche: il “cata su” finale, Rubini contro Nikolic, le botte in campo.

Certo, noi siamo di un’altra generazione. Chi è venuto prima scrolla la testa quando raccontiamo che i nostri derby erano Komazec e Meneghin, erano trasferte al Forum ed erano la bomba di Rusty La Rue o la faccia stravolta di Gino Natali. Così come sono di un’altra generazione quelli che oggi buttano su Facebook i loro selfie dietro alla panchina di Pozzecco e si esaltano per la presentazione all’americana con le luci spente e la musica sparata.

Eppure, se pensiamo a un filo rosso capace di unire vite così diverse, ci viene in mente questo. Il derby, Varese-Milano: cresciuto e cambiato col passare degli anni ma incapace di invecchiare e perdere fascino. Quel derby che no, davvero non lo puoi raccontare: devi ascoltarlo, e a raccontare tutto ci pensa lui.