«Se oggi la Pallacanestro Varese esiste ancora, lo si deve a quest’uomo». La quinta della scena – temporalmente collocabile in qualche mese or sono – è l’androne del PalA2A, sotto il cui cemento ci sono i protagonisti di questa breve storia: il primo, di gran lunga il meno importante, è un cronista di basket che si auto-definisce ancora giovane; il secondo, che dà il vento alla frase sopra riportata, è il presidente di Varese nel Cuore Alberto Castelli, il quale ci perdonerà se riportiamo un attimo privato; il terzo – che incassa la riconoscenza con una delle sue solite battute taglienti e a scoppio ritardato – è “l’uomo”.
La storia di una società di basket si scrive normalmente in canestri e personaggi di campo, meno in dirigenti, ancor più raramente se della specie da scrivania. Semmai citati, questi ultimi vengono associati solo ai momenti epici, ai trionfi, alle saghe che strizzano l’occhio alla leggenda, di certo non a stagioni sportivamente anonime.
Fabrizio Fiorini è stato l’amministratore delegato dell’ultra settantennale sodalizio cestistico cittadino in un anno qualunque del corrente, lungo medioevo biancorosso. Ed è persona schiva, che non ha mai amato la pubblica ribalta, il microfono in mano o le interviste sui giornali, pur rendendosi sempre – a differenza di tanti altri – educatamente disponibile verso l’interlocutore, chiunque egli fosse. Le due cose insieme non depongono a favore della fama di nessuno e, forse, tanto meglio così. A volte bastano i fatti.
Fabrizio Fiorini, da venerdì non più amministratore delegato della Pallacanestro Varese, come avete potuto leggere nell’intervista qui sopra, ha salvato la società dal baratro. Le ha risparmiato la fine di Caserta, l’ha rianimata a un passo dalla morte. Non da solo, ma tra pochi. Pochissimi. Non da solo, ma nella posizione più scomoda, ancorché quasi sempre lontana dalle cronache perché estranea alle vicende del parquet. Non da solo, ma iniziando per primo. Evidenziando una situazione finanziaria e debitoria pericolosa in principio (era la metà del 2015), ponendosi a servizio della società da consorziato appassionato e volenteroso poi, diventandone la massima espressione decisionale non sportiva dell’organigramma infine (e siamo arrivati all’inizio dell’estate 2016).
Lo ha fatto gratis (e chissà perché nel mondo di oggi si sente il bisogno di sottolineare tale particolare…), anzi mettendo spesso e volentieri mano al suo portafoglio di piccolo proprietario, facendo avanti-indietro da Milano e rubando tempo alla sua azienda e alla famiglia. Con ostinazione e con coraggio. Dettando i ritmi di una resistenza che ai tifosi pare una poco affascinante austerità e invece si chiama necessità. Garantendo – con l’ordine, la trasparenza e il buon vecchio e sano passo più corto della gamba – una meravigliosa, in quanto tale, esistenza.
Fiorini è stato l’unico che non si è vergognato di ammettere – anche pubblicamente – che la Pallacanestro Varese stava andando incontro a gravissimi problemi. Poi ha riversato tutto se stesso nel tentativo di risolverli. Riuscendoci o quasi, sicuramente stabilizzando un contesto che a breve sarebbe diventato irreversibile, frutto di anni vissuti da cicale, di errori, di incalcolabili cambiamenti e di occasioni perse.
A chi ora rimane dove lui si è fatto valere, un augurio per un compito per nulla facile: essere alla sua altezza. A tutti gli altri un consiglio: andate a salutarlo qualche domenica al palazzetto, questo milanese che dalla vita ha avuto il dono – nonostante lo sventurato luogo di nascita – di tifare la Varese della palla a spicchi. Lo troverete in tribuna (mai in parterre), con la sua Alessandra al fianco, anonimamente mescolato tra il popolo: 90/100 starà incazzandosi con un arbitro. Allora sorridetegli e ripensate alle parole del presidente Castelli.