Il grande ex Bruno Limido «Dall’Heysel al Franco Ossola»

Il tempo passa ma Bruno Limido non invecchia perché nei suoi occhi si legge lo stesso carattere di quel ragazzino che si era fatto le ossa nel campetto della sua Giubiano. Una delle più illustri bandiere biancorosse ha dato qualche consiglio utile ai più giovani giocatori di Stefano Bettinelli e ci ha parlato del Bologna, squadra in cui ha giocato trent’anni fa.

Limido, come era approdato al Bologna?

C’ero arrivato a novembre del 1985 dall’Atalanta. All’epoca, proprio in quel mese, si riapriva la campagna acquisti e io presi subito la palla al balzo, visto che a Bergamo non trovavo spazio. Ebbi una discussione con l’allenatore dell’Atalanta Sonetti e decisi di raggiungere Mazzone.

Che tipo era Mazzone?

Con lui avevo un rapporto fantastico. Ottimo allenatore e grande uomo. Il presidente del Bologna era Corioni che voleva la promozione in A e pretendeva di mettere il becco nelle questioni tecniche. Diceva che la squadra doveva essere più offensiva e Mazzone a Campobasso lo accontentò, mettendo cinque attaccanti: pareggiammo 1-1, addio Serie A.

Che clima c’è a Bologna?

È una piazza ideale per fare calcio e vive di una tradizione solida e nobile. La tifoseria è esigente e si sente quella pressione che invece mai c’è stata e mai ci sarà a Varese.

Che atmosfera si respira al Dall’Ara?

È uno degli stadi più belli della Serie A e il pubblico è appassionato e fa un tifo bollente. Nel 1985, insieme allo stadio di Firenze, aveva il preto migliore d’Italia.

Il 1985 è stato anche l’anno dell’Heysel: lei era alla Juventus e ha visto con i suoi occhi l’assurda strage di Bruxelles nella finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool. Che cosa si porta ancora dentro di quella triste serata?

Quando ci sono 39 morti per una partita di pallone resti segnato a vita e ti porterai dentro per sempre un’amarezza sconfinata. Potrei parlare per settimane di quella sera maledetta che ho vissuto in prima persona. I miei occhi non volevano credere a quello che stavano vedendo da vicino: nello stadio c’erano corpi senza vita di tifosi, che il giorno prima erano partiti in pullman pieni di entusiasmo magari coi loro bambini. Sarebbero però tornati indietro in una cassa da morto. Avevamo assaggiato quel clima surreale anche alla vigilia, quando eravamo usciti per visitare Bruxelles: fummo costretti a tornare subito in albergo con il pullman massacrato dalle sassate lanciate dagli hooligans.

Fu giusto giocare la finale?

Ci obbligarono a farlo. Credo che se non avessimo giocato la partita i morti sarebbero stati almeno dieci volte di più. L’esercito era arrivato durante la partita e già all’intervallo lo stadio era circondando dai carri armati.

E fu giusto festeggiare la coppa?

Alzare la coppa e portarla in trionfo davanti ai nostri tifosi fu una reazione istintiva dopo una serata surreale, ricca di tensione. Rientrammo subito in albergo e un’ora dopo eravamo già in aereo verso l’Italia. Non è vero che festeggiammo per tutta la notte.

Torniamo al Varese: che cosa deve fare sabato per non essere la vittima sacrificale a Bologna?

Il Varese non deve mai essere la vittima sacrificale e deve presentarsi su tutti i campi allo stesso modo: con la testa alta e consapevole del proprio valore. I giocatori, però, devono anche darsi una svegliata e capire che la B è un patrimonio inestimabile: per i tifosi, per la città e soprattutto per loro.

Oltre a questa consapevolezza che cosa serve?

Concentrazione e intelligenza non devono mancare mai per tutti i novanta minuti. Il secondo gol segnato lunedì sera con il Cittadella è da manuale del calcio. I due gol presi nel posticipo e gli altri 14 incassati prima mostrano scarsa attenzione.

Che cosa consiglia ai giovani biancorossi?

Di sputare sangue durante gli allenamenti e tenere sempre la testa alta in partita. Un ragazzo che gioca nel Varese, se ha davvero voglia di farcela, arriverà lontano. Io ce l’ho fatta e non vedo perché non ce la possano fare anche loro.