Il maestro Cervi e quell’umiltà che non esiste più

Della morte di Mario Cervi, uno dei pochissimi giornalisti che Indro Montanelli volle con sé quando se ne andò dal Corriere della Sera nel ’74 (e questo già dice tutto) ho trovato pochissimo spazio sulle storiche testate nazionali. Ricordo solo un articolo su di lui, che io da lettore incallito seguii ovunque (anche nella sua Storia d’Italia) scritto dall’ex direttore della Provincia, Michele Brambilla, che dice: «Il sodalizio con Montanelli diede a Cervi parecchia notorietà,

ma anche un’etichetta ingrata: quella del numero 2. Ma Cervi era un numero uno. Un fuoriclasse per capacità di comprensione dei fatti e di scrittura; e anche per stile, per moderazione, per eleganza. Uomo umile e signore d’altri tempi, entrava bussando e chiedendo permesso; poi faceva leggere, per chiedere un parere, l’articolo che il direttore gli aveva chiesto magari un’ora prima, e che lui aveva scritto (al computer: non era un nostalgico della Lettera 22) di getto, ma senza errori e senza frasi contorte, anzi con quella chiarezza che è l’imperativo categorico del grande giornalista, il quale non scrive per il Palazzo o per i colleghi ma per i lettori. Lo so che è una frase retorica: ma con Cervi se ne va uno di quei giornalisti di razza di cui – salvo rare eccezioni – s’è perso lo stampo». Io lo ricordo esattamente così.