Il piccolo Martin aveva otto anni, e quella mattina di quattro anni fa era in prima fila: sul traguardo della maratona di Boston, insieme a tutta la sua famiglia, aggrappato alle transenne per vedere da vicino. Perché l’arrivo di una maratona è sempre una festa: per chi la corre e vede il traguardo dopo quegli interminabili 42195 metri, per chi la guarda e applaude la fatica. La bomba scoppiò a pochi metri da lui, portandosi via tutto: carne, sorriso, vita, sogni, pensieri. L’ennesima morte insensata di questi anni macchiati di sangue, forse la morte che più di tutte ci ha colpito. Perché un bambino non dovrebbe mai morire, perché l’arrivo di una maratona – chi ne ha corsa una capirà al volo – è qualcosa di sacro e intoccabile, perché per un bambino che muore ci sono dei genitori (e fratelli, e sorelle) che gli sopravvivono.
Pochi mesi prima di morire, il piccolo Martin aveva fatto un disegno: un cartello, con scritto il suo sogno. “Mai più violenza tra gli uomini. Pace”. Oggi, è l’anniversario: quattro anni giusti da un giorno ingiusto. Dal giorno in cui due bestie hanno ucciso, amputato gambe e braccia, devastato vite, distrutto famiglie. Ci resta la frase di Martin e quella parola: pace. Che però suona così stonata, in questi giorni di bombe tirate e guerre minacciate.