Quando nel 2013, centenario della nascita di Piero Chiara, sono state ripubblicate “Le avventure di Pierino”, l’esilarante commedia umana imbastita su vicende dell’infanzia dell’autore, l’Andersen come miglior libro per ragazzi mai scritto è stato sfiorato per un soffio.
Libro straordinario, meriterebbe di essere adottato nelle scuole medie: appassionante, corale e allegro, ambienta le vicende del “narigiatt” in quella Luino dove crebbe Chiara fra una bricconata e l’altra, regalandoci perle inaspettate in vernacolo e allusioni colorite a personaggi veramente esistiti.
Dispettoso quanto mai e studioso meno di zero, Pierino con la sua combriccola di strada elegge come teatro delle sue imprese i mercoledì al variopinto mercato di Luino negli anni Venti, quando la cittadina lacustre è un attivissimo crocevia commerciale tipico delle terre di frontiera.
Proprio quel mercato, a cui Pierino nonostante i veti dei genitori poteva partecipare per l’intera giornata perché la direzione scolastica aveva stabilito la vacanza settimanale al mercoledì, invece che al giovedì come in tutt’Italia, è il culmine del racconto “”. Il protagonista ha nove anni e una sera di primavera passeggia con il padre sino al porto.
Il signor Eugenio è un doganiere; la madre invece ha un negozio di cappelli e ombrelli (da cui la nota passione dello scrittore per i copricapi stravaganti) e, secondo un altro passo godibilissimo del libro, quando torna a casa per pranzo fa giusto in tempo a preparare la solita minestra. E’ la settimana santa: nel porto, di notte, arrivano da Cannobio grossi barconi carichi di capretti vivi che verranno condotti al mercato di Milano. «Per Pasqua, fin dai tempi dell’esodo degli ebrei dall’Egitto, la tradizione vuole che in ogni famiglia ci sia uno di questi animali in tavola, arrostito a puntino» sottolinea l’autore: emerge dalle pagine uno dei piatti simbolo della tavola varesotta, lo squisito capretto pasquale con le erbe campestri.
I capretti venivano allevati «sui monti, in cima alla Valle Cannobina, di là dal lago, dove le capre si moltiplicavano da sole», e in primavera i mercanti ne comperavano a centinaia. Pierino intercetta il belato tremolante sotto un telone e medita un’azione salvifica.
La sera successiva corre di nascosto al porto e, approfittando del sonno dei guardiani, rapisce una delle bestiole e se la porta nel sottotetto del palazzo dove abita, dove il padre aveva già allevato dei conigli. Affezionarsi alla bestiola è un attimo, ma rifocillarla quotidianamente a forza di pane, latte ed erba fresca non è cosa semplice.
Così, dopo due mesi, il capretto essendo ben cresciuto e i macellai pasquali solo un ricordo, Pierino lo porta al mercato e lo regala ad una venditrice di burro, formaggini e ricotta della Val Veddasca, strappandole la promessa «di portarlo al suo paese, di continuare a allevarlo e tenerlo finché morirà di vecchiaia».
Facendo infine suo il giudizio paterno, per cui «un capretto è un capretto, cioè un animale come un altro, pollo, manzo o pesce, che si mangia senza perdersi in oziose fantasie».
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