Rideva dei carabinieri, Massimo Giuseppe Bossetti, sul suo profilo Facebook postava le solite barzellette sceme sull’Arma. Non sapeva che proprio i militari del nucleo investigativo di Bergamo lo pedinavano da giorni, mentre i colleghi del Ros di Brescia stavano risalendo a lui attraverso il filo implacabile del Dna.
Il fermo del muratore accusato dell’omicidio di Yara è la rivincita del lavoro certosino, portato avanti nell’ombra e proprio per questo interpretato spesso come smarrimento dalla stampa e dall’opinione pubblica. Nell’epoca del clamore mediatico, delle inchieste che viaggiano in contemporanea nelle Procure e sui giornali, quella sull’omicidio della tredicenne di Brembate Sopra pareva costellata di buchi nell’acqua e destinata all’insuccesso. I campioni di dna prelevati a migliaia davano ormai l’impressione di essere la classica lotteria, una slot machine investigativa con la quale dilapidare energie, risorse e denaro.
Invece, ecco la svolta improvvisa in una vicenda che non era solo rompicapo investigativo, ma anche e soprattutto il volto di una ragazzina rapita, aggredita e lasciata morire di stenti in un campo di sterpaglie a pochi chilometri da casa. È stato uno stimolo a non mollare, quel viso. E che questa indagine abbia avuto un profilo umano, oltre che scientifico e investigativo, è dimostrato dal fatto che lo stesso pm Letizia Ruggeri ieri ci ha tenuto ad avvertire di persona la madre di Yara, Maura Gambirasio, con una telefonata. Glielo doveva, si sentiva in debito con una donna che è sempre rimasta in disparte ad attendere e che solo in un’occasione s’era permessa di sollecitare al presidente Napolitano una maggiore considerazione come parte offesa.
«Non abbiamo mai mollato, carabinieri e polizia hanno lavorato in modo sistematico e la dottoressa Ruggeri ha lavorato con estrema professionalità, smentendo certa stampa che l’ha attaccata in modo… non mi faccia dire», ha dichiarato il procuratore Francesco Dettori al nostro giornale.
E, sì, in fondo il fermo di ieri è soprattutto la rivincita di un pm che è sempre stato circondato dallo scetticismo, criticato perché dopo l’omicidio se n’era andato in ferie, sbertucciato nelle trasmissioni televisive da pletore di maître à penser del noir, destinatario di raccolte firme di politici con cui si invocava la sollevazione dall’incarico.
Sbottava in privato, Letizia Ruggeri. Una volta, durante la guerra di posizione ingaggiata col gip Ezia Maccora sul caso Fikri – il marocchino arrestato nei primi giorni e rilasciato con tante scuse -, nei corridoi della Procura era arrivata a dire che lei non aveva sbagliato nulla, che la colpa dell’incidente Fikri era di una cattiva traduzione dall’arabo. Presunzione? Bah, agli astanti era sembrato più lo sfogo di chi, nella bufera, cerca di darsi forza.
Perché, nonostante sia riuscita a dare un nome a quello che fino a ieri era rimasto «Ignoto 1», qualche crepa questa indagine l’ha mostrata. Ora che ha risolto il caso, Letizia Ruggeri potrà riconoscerlo con più serenità. E, finalmente, pur nel dolore, riuscirà a guardare il volto di quella ragazzina senza più sensi di colpa.
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