La prima volta del Poz è racchiusa tra un cerchio di montagne claustrofobiche che ti guardano severe e autobus gialli e rossi che passano per le strade facendo tanto Svizzera. È un saluto ad un certo , tifoso che sfodera per l’occasione una maglia biancorossa numero 6 griffata Varese Roosters, simbolo speciale di una vecchia lucentezza che ritornerà sempre, ma da ieri va temporaneamente messa in un freezer capiente in modo che non si deteriori e non rovini un presente inedito e tutto da gustare.
La prima del Poz sono due chiacchiere con amici che trova un po’ ovunque prima della partita, è una sfida fatta a nel tirare da fuori durante il riscaldamento: i risultati sono rivedibili, ma il centro che profuma di Alabama è qui per altro ed il suo coach lo sa.
Già, coach Gianmarco Pozzecco: la passeggiata lungo la linea laterale è pensierosa e silenziosa, se non quando si avvicinano i suoi ragazzi al termine della ruota pre-partita. Allora è una parola, un abbraccio, un sorriso. Poi diventa ancora silenzio, passi consumati e quello sguardo che va lontano, oltre l’incrocio di linee sul parquet.
L’ovazione del pubblico quando viene pronunciato il suo nome è scontata – quella di Masnago sarà diversa e impareggiabile – meno scontato che le sue prime parole in partita da allenatore della Pallacanestro Varese siano un «incominciamo a difendere?» gridato al secondo avversario perso dai suoi un blocco. Meno per chi non conosce nulla della seconda vita del piccolo grande uomo da Gorizia: dici coach Pozzecco e ti conviene pensare subito alla difesa e al mondo che si è completamente ribaltato rispetto ai tempi del giocatore.
Un rompiscatole è scrivere poco: le azioni offensive sono seguite con aplomb quasi britannico, applausi calorosi alle cose buone e incoraggianti per quelle meno; dall’altra parte del cielo sono invece urlacci ad ogni errore, appunti che curano ogni raddoppio ed ogni cambio sistematico, è un moto perpetuo che consuma la linea laterale e la oltrepassa ripetutamente, sono gambe piegate come se a difendere in campo ci fosse lui, è una sottolineatura continua del confine tra ciò che è bene e ciò che è male.
La partita scorre placida, con il risultato che inizia subito a premiare Varese anche per la marcata differenza atletica e tecnica fra le due squadre.
Il percorso del Poz è più accidentato: si butta a terra dopo un rimbalzo perso dai suoi, rincorre fino a centrocampo per ringraziarlo dopo una bomba segnata, incenerisce lo sperduto quando si dimentica di fare il tagliafuori. Ci fosse una “Pozzecco Cam”, lo spettacolo sarebbe garantito.
Vicino a lui il fido gli si accosta ogni tanto timidamente per non disturbarne la trance: bastano due parole, lui le ascolta. I giocatori invece ascoltano lui, lo seguono, lo abbracciano, sanno che un allenatore che scrive su twitter «Alleno i miei ragazzi per vederli sorridere e sogno la loro felicità» sarà capace di buttarsi nel fuoco per loro se loro impareranno a farlo per lui. Daniel alla fine mette pure la tripla dall’angolo: la dedica per il Poz è chiara come un abc.
La prima volta di Gianmarco Pozzecco sulla panchina del suo destino si conclude con parole dolci. Prima un’ammissione: «Ero fin troppo teso – racconta al fischio finale – ed ho trasmesso la mia carica esagerata ai ragazzi. Erano 12 anni che non indossavo questa maglia». Basterebbe questo per andare tutti a casa contenti ma il Poz continua: «Nonostante questa tensione, i giocatori hanno risposto molto bene: ci siamo passati tanto la palla, abbiamo corso, c’è stato spirito di sacrificio». E la difesa? «La difesa è stata pazzesca».
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