Il timore della morte condiziona la vita. E la paura del futuro non ci fa vivere il presente

L’elzeviro di Marco Tavazzi

Se fossimo eterni, come sarebbe la vita? Pensare al dopo, seguito da un altro dopo, e un altro dopo ancora… la mancanza di una fine.

L’eternità.

Un concetto che da sempre l’uomo cerca di comprendere, ma che può solamente sfiorare, verso il quale può tentare un avvicinamento, ma che non potrà mai completamente comprendere.

Perché noi esseri umani tendiamo all’infinito, ma siamo esseri mortali. Abbiamo l’anima che si avvicina alle stelle, ma siamo esseri terreni.

Ci eleviamo, ma allo stesso tempo ricadiamo spesso a terra.

Una cosa è certa: viviamo temendo la morte.

La fine della vita, dell’esistenza è da sempre al centro della ricerca filosofica. E spesso temiamo la mutevolezza delle cose perché il cambiamento, il trascorrere del tempo ci ricorda che tutto è in movimento.

E che molte cose che sono passate non potranno più tornare.

E questo ci spaventa.

Soprattutto quando siamo felici, quando viviamo qualcosa di bello, c’è sempre quel tarlo nella testa, in fondo alla coscienza, che ci fa temere che possa finire.

Ed è qui il vero problema. Il timore del tempo che passa ci impedisce di vivere il presente.

Se viviamo di ansie e paure, di fatto non viviamo, perché siamo sempre proiettati oltre il momento presente, guardiamo al futuro, ma il futuro non esiste se non nella nostra mente, finché il momento presente non si concretizza in quello che chiamiamo futuro. Oppure ci arrocchiamo nel passato, sempre per paura.

Ma fuggire dal presente è un’esperienza che limita tantissimo.

Dobbiamo liberarci dalla catene temporali con cui programmiamo la nostra vita. Almeno un’ora al giorno. E vivere il presente. E chissà. Potrebbe non finire.