Senza macchia e senza paura. Il primo passo è stato fatto. Col senno di poi dici “tutto facile”, e invece era il contrario: vincere un campionato senza sconfitte, entusiasmando e ripagando il pubblico (i 1.500 all’esordio in coppa ad agosto con il Tradate valgono quasi più dei 4.000 di ieri) è difficile in qualunque categoria, anche nei pulcini.
Non c’era nemmeno la squadra, e qualcuno pensava di supplicare la Varesina perché si spostasse al Franco Ossola: è
tutto facile solo per chi non si è sporcato le mani con la realtà ed è rimasto in serie B con la puzza sotto il naso insieme ai mercenari che lo stavano fregando. Non faremmo cambio un solo giorno dell’ultima serie B con un solo giorno di questa Eccellenza: l’anno scorso in pochi avevano dentro valori e attaccamento, adesso chi c’è è solo attaccamento e valori.
La società è stata brava a scegliere solo persone che incarnano il Varese: deve andare avanti così, varesini e competenti (più si sale, però, e meglio è se decidono in pochi). Di più: la società è stata brava a essere figlia della tifoseria (una volta c’erano la tribuna, i distinti, gli ultrà, i giornalisti; adesso sono la stessa anima in un unico corpo) e della città. Deve andare avanti così, quindi potenziando l’anima e l’investimento varesino, da Claudio Milanese a Paolo Orrigoni e a chi si farà avanti (buttiamo lì i nomi di Rosario Rasizza e la sua Openjobmetis, perfetti varesini).
Aperta parentesi: a un tifoso del Varese non interessa un fico secco che Orrigoni sia o non sia candidato sindaco. A un tifoso del Varese la scritta “Tigros” mette i brividi perché rappresenta vittorie, sconfitte, dolori, gioie, lacrime, sorrisi. Chi non le conosce, stia zitto e non la butti sempre in politica. Noi non guardiamo in faccia a nessuno, prima viene il Varese e poi il resto, e se l’accoppiata Milanese-Orrigoni dovesse riformarsi per avvicinare questo club alla serie B, non si può che esserne felici. Questo pensa la gente: che male c’è a scriverlo?
A questo punto i tifosi chiedono poco, ma è tutto quel che serve: girone A della serie D (porta bene, ed è più vicino a noi), due o tre giovani forti (rivolgetevi a Scapini, noi di ruoli non ne parliamo soprattutto oggi che siamo di fronte a ragazzi che danno tutto in ogni ruolo), stessa serietà e stessa passione, una crescita organizzativa proporzionale alla scalata delle categorie. E, ovviamente, di lottare per vincere.
La squadra. I vecchi, intesi come giocatori che scendono dall’alto, cioè Giovio, Luoni e Gazo, avrebbero potuto essere titolari in ben altri campionati e invece hanno scelto il Varese. Ma la stessa cosa l’hanno fatta i giovani come Lercara e Simonetto (guai a farsi scappare quest’ultimo, un predestinato) che la scorsa estate di fronte al procuratore che li spingeva in ben altri lidi dorati per motivi economici, tra le lacrime gli hanno risposto: «La nostra squadra è il Varese». Quest’identità varesina e la capacità di piegarsi al nome del Varese (Marrazzo dietro la rete della tribuna disse prima di firmare: «Io voglio giocare solo in questo stadio») hanno prodotto attaccamento alla maglia, l’attaccamento alla maglia ha prodotto la cavalcata trionfale, la cavalcata trionfale ha prodotto sogni puliti e non compromessi, o partite da vendere, o dirigenti impresentabili.
Sull’allenatore Melosi dobbiamo essere sinceri: siamo partiti forse prevenuti contro la sua durezza, schematicità e poca flessibilità. Ci ha conquistato perché, rimanendo se stesso e senza scendere a compromessi, ci ha guidato dove siamo ora, tenendo in pugno squadra e situazione, gestendole al meglio. Aveva detto ad agosto, quando non c’erano nemmeno i giocatori, di fronte allo stadio deserto: «Lo riempiremo per la promozione». Ha avuto ragione perché le sue qualità principali sono la fede, la mentalità, lo spirito, la concretezza. Grazie mister, Peo Maroso sarebbe fiero e si rivedrebbe un po’ in te.
Lo striscione più azzeccato di questa rinascita lo ha esposto la curva: “Alla faccia D chi ci vuole male”. Ma chi vuole male al Varese? Quelli che hanno scritto e detto che i soldi sarebbero finiti a gennaio e i giocatori sarebbero rimasti all’asciutto (qualcuno diceva la stessa cosa de “La Provincia”, undici anni fa come un anno fa). Quelli che non sono più venuti allo stadio non tanto perché il Varese giocava in Eccellenza, ma perché pensavano che dietro al Varese ci fosse gente peggiore di quella che se ne era andata. Quelli che, mettendo prima se stessi della società e della storia, hanno sminuito la loro fede, privandosi di gioie ed amicizie che restano al di là dei risultati. Quelli che, in fondo, non hanno mai azzeccato un pronostico nella loro vita, salendo sempre sul carro sbagliato e perdente. Tra questi non c’è Silvio Papini: ha perso tutto (il Varese, per lui, era un amore e per amore puoi anche sbagliare, soprattutto se sei circondato da sciacalli) ma è stato zitto. Mai un’intervista o una parola fuori posto contro il Varese nell’ultimo anno, a differenza di altri. Ha fatto la sua strada e per questo lo ringraziamo. Grazie, Silvio, perché nel momento peggiore hai dimostrato che la dignità esiste ancora. Basta tacere in un mondo di parolai.
L’esempio di questa stagione, per noi della Provincia, si chiama Massimiliano Gibellini: ha perso la figlia Erika, ma anche ieri era lì a fare lo steward ai cancelli, in silenzio, con un sorriso per tutti. Se il Varese era tradimento e ora è orgoglio, se era odio e ora è amicizia, se era rimpianto e ora è sogno, lo deve a gente come lui.
O come Pietro Frontini e Omar Valentini, piccoli angeli silenziosi del club: noi la promozione la dedichiamo a loro. E a chi ce li ha fatti conoscere davvero (Stefano Ferrè). A Pietro perché ha percorso un viaggio dall’Eccellenza alla B e dalla B di nuovo all’Eccellenza senza battere ciglio, senza prendere un euro, per puro amore. A Omar perché, quando tutti ad agosto eravamo al mare, sudava in un bugigattolo dello stadio per iscrivere squadre e tesserare giocatori, in silenzio e gratis dopo una stagione beffa che non ha scalfito però il suo amore e la sua passione.
Come Pietro e come Omar, sempre al loro posto, adesso ce ne sono tanti, ma solo perché loro – e quelli come loro – all’inizio hanno dato l’esempio. Tanti quasi quante le stelle nel cielo, che brillano attorno alla stella più grande di tutte: Peo Maroso.