«Mi riservo di decidere un eventuale ricorso». Così Stefano Binda commenta la decisione della Quinta sezione penale della Corte d’Appello di Milano, che ha accolto parzialmente la richiesta di indennizzo per ingiusta detenzione presentata dai suoi legali. Binda era stato liberato dopo oltre tre anni di custodia cautelare in carcere, in seguito all’assoluzione in Appello e alla conferma in Cassazione dall’accusa di aver ucciso Lidia Macchi.
La richiesta di risarcimento, avanzata dagli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli, ammontava a 303mila euro. Tuttavia, i giudici di Milano hanno accolto l’istanza riducendo la cifra di un terzo, fissando così il risarcimento a 212mila euro.
La sentenza, firmata dal presidente Roberto Arnaldi e dai giudici Veronica Tallarida e Giulia Anna Messina, riepiloga il caso e le indagini che portarono all’arresto di Binda nel gennaio 2016. Durante il processo a Varese, i giudici di Milano hanno ritenuto che la difesa di Binda fosse caratterizzata da dichiarazioni confuse, definendo la sua condotta come una “colpa lieve”, giustificando così la riduzione dell’indennizzo.
Binda ha espresso la sua delusione: «Sto seriamente valutando il ricorso. La decisione si basa sulla mia difesa, giudicata confusa e incoerente, ma è stata ignorata la successiva assoluzione. Ora i miei legali stanno esaminando le azioni future».