La notte di Natale non si dormiva: Gesù Bambino da Betlemme doveva arrivare a Varese, attraversare i deserti, salutare un po’ tutti e poi fermarsi proprio là, dove sul davanzale della finestra della nostra cucina lo attendeva un bicchiere di latte e qualche biscotto. Gesù non l’ho mai visto: una volta uscito dall’infanzia mi accorsi che i suoi passi erano quelli di mia madre che nascondeva i regali negli armadi. Ma Gesù era una cosa e Babbo Natale un’altra:
nella fantasia di un bambino Natale ha i suoi personaggi, ciascuno con un compito preciso. Chi ti fa divertire e chi ti riporta alla logica, chi è scanzonato e chi è spirituale. E deve avere le sue tradizioni, perché senza è come un abete orfano di addobbi. In famiglia tutto seguiva un rituale epidermico e stressante, perché i miei personaggi erano un po’ quelli di Luigi Pirandello: alla ricerca di un autore benevolo e interessato ai forti caratteri. Papà Franco è sempre stato un antesignano della spending review, schierato contro il consumismo e a favore del no-logo. Un anno, per far capire a me e a mia sorella Chiara cosa fosse il Natale dei suoi tempi, ci fece trovare sotto l’albero un sacchetto di plastica con il libro Cuore, qualche mandarino e tanta frutta secca. Sul resto, intervenne come sempre mamma. Era lei, Giulia, la donna della mediazione che dava la forma ad un’atmosfera calda e avvolgente dove l’equilibrio tra il dovere e il piacere era ben delineato. Gli eccessi non vanno mai bene né nelle privazioni che nelle concessioni. Così, i miei Natali sono stati quelli delle tante voci che facevano da contrappunto alla tavola: dopo la benedizione papale, altra irrinunciabile tradizione, la tv “cattiva maestra” veniva spenta e lì partivano le discussioni. Nonno Mario panettiere portava il pan tramvai e spolverava il Natale di bianca farina, nonno Ugo stappava il vino migliore, le nonne Luigia e Maria si trinceravano chi in cucina e chi nei ricordi. E mamma recuperava le vecchie ricette di famiglia: patè di prosciutto cotto e centinaia di ravioli rigorosamente fatti a mano. La tradizione di sedersi tutti a tavola seguiva quella dello scambio di regali, un momento che faceva da ammortizzatore tra il sentimento burbero di rifiuto del clima pantagruelico e quello rilassato dello stare insieme. Più di tutto, però, era quel profumo di bontà ad accendere il Natale: un impegno a riconciliarsi con sé stessi – questo l’ho capito molto più in là nel tempo – e con gli altri. Era la Misericordia di cui parla oggi Papa Francesco ma, in altri modi, era quel detto di famiglia che si ripeteva soprattutto in quei momenti: il bene che fai esce dalla porta ed entra dalla finestra. Ecco la straordinaria fiammella della tradizione: quella di un presepe nel quale io mettevo subito la statuetta di Gesù e mia madre la toglieva perché non era ancora tempo, di un albero con gli addobbi artigianali fatti a punto e croce, di un’attesa che vivevi prima di tutto dentro di te. Fosse anche un po’ troppo pagana. D’altronde, il momento migliore del Natale è la sua preparazione accurata che allora iniziava proprio da quell’ingombrante silenzio di una notte infinita: nevicherà? Il bianco Natal è un sogno di tutti. Anche dei miei nonni che vivevano quella “chiamata alle armi” con l’entusiasmo dei grandi mangiatori, quasi tra un boccone e l’altro volessero mettere un freno alle fatiche che sarebbero arrivate ancora. Ma in quella giornata Santa non ci pensi: il gusto delle piccole cose – gesti e simboli antichi – mi assorbiva completamente con una strana malinconia che ancora oggi mi tengo stretta. È questo l’effetto che mi fa il 25 dicembre, ma poi basta una fetta di panettone e mi addolcisco.