Non saprei scrivere nella vostra lingua, quello che leggete l’ho raccontato a un signore d’una certa età che ogni giorno sosta un po’ nell’angolo di Varese dove mi accovaccio per raccogliere la generosità di quelli che passano di lì. Per la verità non è un unico angolo, sono più di uno. Sto da diverse parti del centro, di solito sotto i portici, a seconda di come è il passaggio, di come va il tempo e di come mi viene l’ispirazione.
Oggi quest’uomo dai capelli bianchi, gli occhiali cerchiati di nero e il cappello di paglia mi ha raccontato dell’appello di un prete che conosco, don Marco, per invitare i varesini ad essere ancora più prodighi di quello che sono. Allora ho chiesto al mio abituale benefattore: esprimi un grazie a chi mi dà una mano. La dà a me e ad altri come me. Ci tengo a far sapere, tramite il mio messaggero, che questa città sa essere buona. È una parola universale, la più bella parola del mondo in qualunque lingua sia espressa. Varese la conosce e la pratica. Magari chi ti elemosina qualche centesimo evita di incrociare i suoi occhi con i tuoi, ma non lo fa per un senso di superiorità. Lo fa per quella che mi pare una certa ritrosia o prudenza o rispetto.
Sono gli stessi sentimenti che colgo quando vado alla mensa dei poveri o nel dormitorio pubblico. La gente che ti assiste mette tutta la sua carità nei gesti. E in essi cogli anche le parole non dette, ma senz’altro pensate. Sono sicuro che l’appello di don Marco verrà raccolto. Grazie a chi ha tradotto i miei pensieri e grazie a voi che continuate ad accogliermi, volermi bene, far sentire a casa anche uno che non ce l’ha.