Quando una tragedia diventa così abituale, consuetudinaria, ripetitiva al punto da non scuotere le coscienze, bisogna scuotere la tragedia. Scrollarne i rami disperati. Farne cadere le disgraziate foglie. Infine puntare l’attenzione su di una, ingrandirne l’immagine, indicarla all’attenzione di tutti. Perché la coscienza collettiva finalmente s’accorga di quel che davvero succede, della sua intensità dolorosa, dell’universalità del soffrire.
Perciò è stato giusto, saggio e perfino doveroso pubblicare in prima pagina, com’è stato sulla “Stampa” di ieri,
la foto di Aylan, tre anni, siriano, annegato mentre da Bodrum cercava di raggiungere Kos, là tra Turchia e Grecia, nel mare della crudeltà contemporanea. Aylan provava a scampare alla guerra, alla fame, alla morte. Era un profugo come migliaia di altri profughi, un fuggiasco dal dramma che ne aveva sconvolto l’acerbissima esistenza, un bambino trasportato verso l’ormeggio della salvezza da un premuroso papà, da un’inquieta mamma.
Tanto impegno, tante cure, tanta fiducia. Invano. Il destino non ha voluto mostrarsi nella sua benignità, e ha invece deciso d’esibirci quel bimbo, abbandonato, lì, sulla rena, tra lo sciabordio delle onde. Aylan sta disteso come in una nannae, il braccino destro allungato lungo il fianco, la testa poggiata sulla sabbia bagnata, le gambe piegate al modo in cui la sera si rannicchiano, nel momento d’infilarsi sotto le coperte. Ci dice, con struggente tenerezza: io sono morto mentre tentavo di venire tra di voi. Voi siete vivi?
Appunto: siamo vivi? Questa foto serve a porre la banalissima domanda, e reclama una difficilissima risposta. Si affida a una storia minima per illustrare il massimo d’una calamità. A un particolare per indicare il generale. A un’emozione per chiamare un’empatia. Ci coinvolge (finalmente), ci agita (finalmente), ci squassa (finalmente). Se il sentimento – sociale, morale, civile, spirituale, per non dire (e diciamolo) politico – s’era appisolato, si risveglia. Ed era il tempo che si risvegliasse, e non insistesse nel comodo poltrire tra i cuscini dell’indifferenza e dell’egoismo, giudicando l’avvilente migrazione di uno o più popoli un fenomeno indegno di comprensione, cura, accoglienza, generosità. E figuriamoci se di lacrime.
Magari la finiremo, grazie e purtroppo al dolce/straziante/meraviglioso/cupo profilo d’Aylan vestito di rosso e blu come un qualunque nostro figlio e nipotino, di far prevalere il distinguere sul compatire, la ripulsa sulla carità, il cinismo sulla misericordia, la ricerca di voti a suon di populismo su quella del minimo comun denominatore di umanità.
Perciò: se non ora, quando? Se non in tal caso, in che circostanza pubblicare una foto così? Se non in obbedienza al rispetto verso ogni bambino, donna e uomo, per quale altro motivo, scelta e fine deciderne un impatto scioccante? Se non a dimostrazione (denunzia, conferma) che il giornalismo non è solo un mestiere, e invece un servizio e talvolta una missione, per che cosa di diverso e d’alternativo imporre al lettore di non far finta di niente?
Non si scappa davanti ai fatti. Li s’insegue, acciuffa e mette in fila perché siano opinabilmente giudicati: ciascuno ne trae la valutazione che crede, nessuno può cullarsi nell’illusione di scansare l’impegno a sapere. Si definisce etica della responsabilità, e perfino gl’irresponsabili hanno diritto a praticarla, pur se allertati casualmente da una pagina di giornale o dallo schermo del televisore o dal digitare su un telefonino, un tablet, un computer.